Anche i più strenui apologeti del paradigma dominante, quello che pone la pena come giusta retribuzione della colpa, devono tuttavia riconoscere la mancanza di giustificazioni razionali capaci di legittimarne in maniera inequivocabile la logica proporzionalistica. La pena può sostenersi soltanto su una concezione sacralizzata, che riconosca nella pena una azione di annullamento, capace di cancellare la colpa, e che perciò attribuisca alla punizione una funzione di purificazione, mediante la quale possa essere reintegrato un ordine turbato. Tutta la presunta ‘razionalità’ della pena in senso giuridico poggia sulla possibilità di stabilire una rigorosa corrispondenza fra colpa e pena, tale per cui la ‘ragione’ per la quale si infligge una pena sta nella necessità di ‘equilibrare’ la colpa. La pena dovrebbe dunque trovare una giustificazione razionale in un contesto di carattere religioso, e propriamente nell’idea che l’espiazione sia indispensabile, allo scopo di rimediare alla lesione introdotta dalla colpa.
Al di fuori di questo contesto, ove manchi la possibilità di riconoscere alla pena il carattere essenziale di un ‘male’ necessario per ricostituire nella sua pienezza il ‘bene’, ove cioè si offuschi o peggio ancora si dissolva la possibilità di concepire la pena come strumento di una universale redenzione, essa rimane del tutto priva di ogni supporto razionale. Se si prescinde da un universo di sacralità, la pena si presenta nella sua nuda ed esclusiva faccia di dolore inflitto, senza che esso possa essere ‘giustificato’ in vista di un valore superiore. Afflizione fine a se stessa, sofferenza totalmente gratuita, puro e semplice ponos, privo di ogni corrispettivo.
Né si può dire che, ad un esame quanto più possibile obbiettivo e rigoroso, appaiano meno controverse, e talora perfino più intimamente contradittorie, le teorie elaborate per rispondere alla diffusa esigenza di superare i limiti del modello retributivo. La concezione generale preventiva, il modello correzionalista o dell’emenda, la prospettiva rieducativa – vale a dire le principali proposte formulate soprattutto nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, sostanzialmente a partire dal Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria – ribadiscono indirettamente, sia pure in modi diversi e con differenti gradi di plausibilità, la persistente difficoltà di pervenire ad una concezione della pena che sia razionalmente argomentata e universalmente condivisa.
L’idea di fondo, attiva nelle teorie a cui si è ora accennato, è quella compendiata nel motto latino non quia peccatum, sed ne peccetur, dove è evidente il tentativo di eludere le aporie ineliminabili dalla concezione della pena come corrispettivo della colpa, in favore di un’accezione più circoscritta e meno totalizzante della pena. Ma dove è altresì non meno evidente il tributo implicitamente pagato ad una concezione organicistica e ‘pedagogica’ dello Stato, chiamato a svolgere non semplicemente un ruolo di gestione del diritto, ma anche ad agire come depositario di valori e idealità che debbano essere imposti indiscriminatamente a tutti i cittadini, quali che siano le convinzioni e gli orientamenti morali e culturali dei singoli.
Nell’insieme, il panorama offerto dalle concezioni moderne della pena sembra confermare il giudizio fortemente problematico pronunciato da Hegel, quando afferma che «la teoria della pena è una delle materie che, nella scienza giuridica positiva dei tempi moderni, se la sono cavata peggio». Il campo del diritto penale, che dovrebbe essere quello più remoto da ogni presupposto di stampo mitologico o religioso, si presenta paradossalmente come l’unico ambito nel quale persista una concezione sacralizzata della pena come rimedio della colpa, proprio mentre da questa concezione ha preso definitivamente congedo la stessa impostazione cristiana. Restando fedele all’accezione retributiva della pena, il diritto mostra di restare ancorato non già alla religione in quanto tale, che da quella accezione con la figura stessa del Cristo si è definitivamente allontanata, bensì ad una religiosità primitiva, ormai conclusa con la diffusione di un messaggio evangelico che all’economia della pena ha sostituito l’‘assurdo’ della sovrabbondanza della misericordia divina.
[NdR Queste considerazioni sono approfondite dall’Autore nel numero di «Paradoxa» Punire il reo o guarire la vittima? La giustizia riparativa (4, 2017) e nel recente volume Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia].
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