Zygmunt Bauman scrive che tutte le sponde della vita moderna sembrano incontrarsi nell’esperienza del bighellone tra la folla, trovandosi tra estranei ed essendo per loro un estraneo. Quello che già Baudelaire, in pieno ottocento, aveva annunciato col suo elogio del flaneur, l’uomo della folla. Credo di non ricordare neanche lontanamente l’ultima volta che mi sono trovata in mezzo a una folla.
Raramente negli ultimi mesi ho rivolto la parola a uno sconosciuto. Il confinamento – e anche l’entità persecutoria che l’ha generato (il virus) – ha assottigliato le occasioni delle interazioni casuali, prima per decreto e poi nel nostro inconscio. Dopo quasi un anno di rigido controllo sul nostro spazio prossemico – la distanza che ci separa dall’interlocutore – quell’insieme di conversazioni spontanee nato dagli incontri occasionali con sconosciuti ha ceduto il passo ad una blanda forma di evitamento interpersonale. Eppure la nostra vita di prima ne era piena.
Da quando la tecnologia è andata ad annidarsi nella normalità, nelle consuetudini più elementari del nostro vivere quotidiano, non riesco a immaginare alcuna esperienza basilare dell’essere umano che non sia stata smaterializzata e offerta alle persone nella sua variante digitale da qualche gigante tecnologico. Amicizia, lavoro, amore, sesso, consumo, intrattenimento si animano in una quinta digitale mediati dai tool che ci aiutano a realizzarli (o evitarli, dipende dai punti di vista). Possibile che quella folla di volti, quella nuvola di brevi conversazioni estemporanee, disimpegnate ed evanescenti, siano scomparse da un giorno all’altro dalle comuni esistenze senza che nessuna tecnologia le reclamasse?
Nella prima fase del confinamento, presi a cercare di non perdere di vista l’amico, il conoscente, il compagno del liceo abbiamo ossessivamente condiviso attraverso uno schermo qualunque rito insignificante delle nostre giornate: nulla sembrava poter essere compiuto – e degno- senza un pubblico di affetti distanti ma virtualmente compresenti. Facebook, Instagram, TikTok, Snapchat, hanno continuato a fare quello che da sempre hanno fatto meglio: manutenzione dei legami sociali.
Il preistorico Skype, ma soprattutto Zoom e Meet del colosso della Silicon Valley, hanno avuto una seconda vita e ospitato, oltre alla controversa DaD e alle conference call (decine di conference call!), rendez-vous informali con amici e parenti. Le tecnologie – così protese a costruire algoritmi di matching in base agli amici degli amici, agli interessi comuni – hanno trascurato di fare manutenzione del matching più primitivo, algoritmicamente più rozzo: l’incontro tra due individui accomunati solo dall’essere connessi in quell’esatto momento in un qualunque luogo del pianeta. Si direbbe che per vedere una faccia nuova non ci fosse rimasto che il supermercato.
Se non fosse paradossale, direi che da un certo momento in poi, abbiamo cominciato a sentire la mancanza degli sconosciuti. Di quella folla virtuale entro la quale sentirsi ancora una volta estranei a qualcun altro per vedere se il sortilegio del distanziamento potesse essere spezzato con un antidoto digitale prêt-à-porter.
Omegle, talk to strangers! (https://www.omegle.com) offre esattamente questo antidoto e lo inocula nel corpo infetto della pandemia. Nato nel 2009 da un’idea dell’allora diciottenne Leif K-Brooks come un sito di online dating per adolescenti, durante il distanziamento ha vissuto un inaspettato fresh start diventando il nuovo gadget tecnologico dei giovani della generazione Z (ragazzi e ragazze nati tra 1996 e il 2010) e uno dei tanti casi in cui, da Zuckerberg in poi, un inventore digitale di seconda generazione è riuscito a farsi largo nella sontuosa sfilata di companies americane giocando una mano vincente.
A differenza di Facebook, però, che vuole connettere le persone in modo permanente, Omegle si sviluppa attorno a un’idea molto meno ambiziosa (ma, a quanto pare, straordinariamente efficace quando tutto il mondo è chiuso dentro casa): fare interagire in modo casuale e istantaneo due sconosciuti che poco prima bighellonavano annoiati tra una storia di Instagram e un video di TikTok per poi lasciarli andare via senza troppi rimpianti.
Più che un ambiente congeniale ad un adolescente del 2020, nella modalità di ingresso «Text» Omegle propone, sin dalla rozza interfaccia, un’incursione nel paleoweb abitato dalle generazioni precedenti in cui l’interazione online era estemporanea, anonima e non troppo sottilmente pruriginosa. I due interlocutori – che si definiscono Stranger1 e Stranger2 – vengono proiettati in una chat room dedicata dove possono chiacchierare del più e del meno oppure discutere attorno a un argomento proposto da un terzo soggetto che può spiare la conversazione (la modalità di ingresso si chiama proprio «Spy»). Quando uno dei partecipanti abbandona, l’interazione si conclude per tutti.
Sin dall’inizio, il DNA di una chat di incontri ‘old school’ è molto spiccato: un codice linguistico sincopato ed elementare fornisce coordinate inconfondibili circa le aspettative dell’interlocutore e inviterebbe immediatamente a liquidare il revival della piattaforma come un’anomalia, un gesto di insofferenza collettiva inscritto nelle premesse del distanziamento. Niente di particolarmente avvincente. La video-chat, invece, presenta elementi più interessanti e, presumibilmente, la possibilità che il gadget digitale duri anche dopo.
Scegliendo questa opzione, i due sconosciuti avviano una conversazione faccia a faccia per mettere in scena una sorta di speed date in pixel della durata massima di 2 minuti. E poiché i ragazzini vanno dove sono gli amici, e gli amici dove sono gli influencer dall’altro capo può esserci chiunque: una faccia nuova, ma anche il compagno di classe, o lo youtuber di successo. Sarebbe un habitat ossessivamente simile ad altre decine di ambienti tecnologici se non fosse maturato nell’incubatrice di quella forza creativa e anarchica chiamata adolescenza.
Ignorando qualunque propensione catastrofista del mondo adulto, i ragazzini fanno dell’esperienza dell’incontro un gioco mettendo insieme pezzi e mondi distantissimi: in una sorta di roulette russa a salve ‘skippano’ gli estranei finché non incontrano l’amico o la star per una scossa di infantile meraviglia. Mentre cercano Spawn o Camper (a proposito, chi sono?) sperano di non essere soli davanti allo schermo quando incontreranno di là un piccolo raduno di coetanei. È da sfigati! Dicono. E così via e via ancora. Il gioco finirà solo quando dall’altra parte del video incontreranno la mamma.
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