Con il suo solito acuto gusto per la provocazione, Dino Cofrancesco giorni fa ha argomentato un Elogio della vendetta (24 Giugno 2021), che non si può non leggere se non con piacere e ammirazione, ma che qualche domanda la suscita.
Cofrancesco cita a chiusura un comune amico e maestro, Mario Stoppino, che avrebbe sostenuto il recupero del «valore morale (ed estetico) della vendetta». Intuisco – forse sbagliando – che questa affermazione di Stoppino si collegava alla sua concezione di una terza etica (accanto alle due weberiane della responsabilità e della coscienza), l’etica del destino. Non è facilissimo dire qui cosa intendesse Stoppino con il concetto di «etica del destino», visto che il nostro disgraziatamente non ha lasciato molti scritti, tuttavia non credo di sbagliare riportando che tale etica rinvia ad una concezione assiale della società, nella quale gli individui occupano posizioni prestabilite e immutabili nell’ordine sociale. Così, qualsiasi evento loro capiti, questo stesso è interpretato come ‘giusto’ e ‘dovuto’ in base a quell’ordine sociale immutabile.
Quindi, eventualmente, anche essere ammazzati per vendetta da qualcuno che per ordine e gerarchia ha il diritto/dovere di farlo se abbiamo trasgredito. Si tratterebbe di una concezione estranea all’achieving societies della contemporaneità e più tipica, appunto, delle società assiali e anche di quelle medievali pre-moderne.
Sul piano strettamente ‘fenomenologico’, il problema della vendetta è «contro chi ti vendichi quando ti vendichi». Nel bellissimo film Un borghese piccolo piccolo di Monicelli che Cofrancesco cita a ragione, Alberto Sordi-Giovanni Vivaldi compie la sua vendetta immediatamente, o molto presto. Nel senso che incontra e riconosce l’assassino subito o a poca distanza dall’evento omicida – se non ricordo male dal film. O, meglio, Giovanni Vivaldi ‘comincia’ la sua vendetta presto. Ma più si protrae la sua azione di vendetta-tortura sul terrorista, più – appare evidente nel film – Giovanni Vivaldi sembra smarrire il senso della sua azione, tanto che la morte stessa procurata al terrorista, anziché gioia, genera in Giovanni rabbia e frustrazione.
Arrivo al punto: ‘chi’ ha ucciso il figlio di Giovanni Vivaldi? Il terrorista che esce sparando da una banca rapinata, oppure il giovane moribondo incatenato in un capanno? Quei due sono la stessa ‘persona’? L’attribuzione del senso (weberianamente inteso) di un’azione da parte di un attore è qui ed ora, quando l’azione si compie. Quella stessa azione, a distanza di tempo, spazio e luogo, può non aver più ‘senso’ oppure lo stesso ‘senso’ di prima per quell’attore. Questa estraniazione dell’io, questa perdita di ‘senso’ dell’azione, è stata testimoniata da molti terroristi e delinquenti vari nelle loro memorie o deposizioni ex post.
Significa che dobbiamo giustificarli e perdonarli? Per me, assolutamente no. Significa che dobbiamo incontrarli e abbracciarli? Per me, assolutamente no. Significa che non meritano alcuna condanna? Per me, assolutamente no.
Ma che ‘senso’ ha chiuderli in un capanno e martoriarne il corpo a dieci, venti, trenta anni di distanza dai loro misfatti? Quegli individui ‘oggi’ non sono gli stessi criminali di ‘ieri’. Ci dicono che non lo farebbero mai più ‘oggi’, perché per loro le azioni compiute ‘ieri’ non hanno (‘oggi’) più senso.
Allora, contro chi ti vendichi? ‘Chi’ è colui contro il quale ti vendichi?
Si dice che la vendetta è un piatto che si consuma freddo. Non ho mai capito perché. Per me, se la vendetta ha una forza etica e una valenza ‘estetica’ (per dirla con le parole che Cofrancesco riporta e attribuisce a Mario Stoppino) è quando è consumata ‘ora’, vicino temporalmente, spazialmente, continua all’azione criminale. Solo in quell’istante preciso la vendetta ha ‘senso’, per chi la compie e per chi la subisce e magari la accetta. La vendetta è infatti un ‘impulso’ irrefrenabile e immediato, una cosa che si fa prima dell’elaborazione intellettiva dei fatti.
La vendetta si basa sul principio ‘del taglione’ e ‘dell’occhio per l’occhio’, del fare al reo quello che lui ha fatto alla sua vittima. Inoltre, la vendetta deve (dovrebbe) essere compiuta dalla vittima stessa, o se questa non può (appunto, perché magari vittima ‘ammazzata’) da qualcuno di molto prossimo alla vittima stessa, un fratello, un congiunto, un membro dello stesso clan, come nelle faide.
La presenza del ‘terzo’ anche nelle forme istituzionalizzate della vendetta, come in certi codici orientali, è già di fatto un primo incerto passo verso tipi di razionalizzazione dell’azione giudiziaria. La vendetta non ammette la ‘terzietà’, non ammette il ‘terzo’ (un giudice, un magistrato, financo il boia). A ben intendere, dunque, nell’articolo Cofrancesco parla in definitiva della ‘pena’, che è una cosa diversa (una razionalizzazione giuridica, nei termini di Weber) e la commisura alla ‘vendetta’ (che è invece a-razionale, emotiva). Ma Cofrancesco sarà ovviamente d’accordo, la pena non è vendetta.
Condannare a morte Eichmann dopo processo ha perfettamente senso, credo per chiunque, certo per me, è la pena che si è meritata (dato quell’ordinamento giuridico, dovrei aggiungere). Anche a distanza di decenni, quella pena inflitta è strameritata – dovrei dire, invece, weberianamente legittima. Non c’è nessuna vendetta nell’impiccagione di Eichmann, ma una sentenza a seguito di un processo, appunto una pena. (Il tema della condanna e della pena che arrivano ‘tardi’, me che immancabile arrivano, si trova, per stare ai film, anche in Music box di Costa-Gravas)
Se invece nel 1962 – sottolineo: nel 1962 – si fosse consegnato Eichmann ad un gruppo di ebrei superstiti e ‘vendicativi’, da questi portato ad Auschwitz, messo alla fame per un po’ di settimane o mesi, poi un giorno denudato, accompagnato ai ‘bagni’, gasato e passato per il forno – questa sì una ‘vendetta’, un ‘occhio per occhio’ a-razionale vent’anni dopo e compiuto dalle vittime stesse: tutto ciò non avrebbe invece avuto alcun senso, certo non per Eichmann e – devo dire – certamente neanche per me – posto fossi stato testimone o osservatore di quella vendetta postuma o ‘ritardata’.
Forse questa ‘procedura’ avrebbe soddisfatto la ‘sete di vendetta’ di quel particolare gruppo di ebrei che avrebbero goduto nel passare per il forno il carnefice dei loro cari o congiunti, ma faccio difficoltà a non sospettare che in costoro non si annidasse una qualche patologia della mente. Come era nel caso del «borghese piccolo piccolo» Giovanni Vivaldi di Monicelli-Cerami.
Dino Cofrancesco dice
Bellissimo e profondo l’articolo di Ieraci. Da meditare!
(Mario Stoppino parlava del ‘valore morale ed estetico della vendetta’ non in riferimento solo all’etica del destino ma non è l’esegesi del pensiero del nostro comune amico e maestro qui in esame..)