1. Ci sono parole interdette nel lessico oggi dominante e perciò furoreggiano gli eufemismi, che offrono vie d’uscita da situazioni imbarazzanti: quindi assolutamente no alla parola “guerra”, ma sì a tutto un ventaglio di espressioni che possono andare da “missioni umanitarie” a “contrasto del terrorismo” fino alla più diluita di tutte, ma dal significato evidente, cioè “assumersi responsabilità chiare” anche se questo comporta spese “e ciò riguarda anche l’opzione militare”.
Così si riesce a dire tutto ciò che la nostra opinione pubblica (ma anche quella degli altri grandi paesi occidentali e dell’Unione europea) è disposta a farsi dire.
2. L’Occidente non vuole sentir parlare di guerra, anche quando la fa, interpreta le violenze che continuano a colpire in modo particolare la cristianità orientale e africana come un fenomeno di criminalità comune, da fronteggiare più col codice penale e con azioni di polizia internazionale che con pratiche politiche; arriva a riconoscere che la sua identità viene continuamente attaccata, ma non la ritiene seriamente minacciata, anche perché non è più in grado di mettere a fuoco il profilo stesso della sua identità. L’integrazione continua ad apparire all’Occidente l’unica risposta adeguata ad ogni tipo di fondamentalismo etnico e religioso: il che non è certo privo di buone ragioni, dato che nessuno, ma davvero nessuno, è riuscito fino ad ora a proporre un altro e diverso paradigma per gestire le migrazioni che sono ormai diventate il carattere più tipico della globalizzazione postmoderna. Resta però il fatto (e i fatti sono resistenti, come ammoniva Bobbio) che di modelli di integrazione ne esistono e ne sono stati messi alla prova diversi, spesso tra loro incompatibili e che tutti hanno dato pessima prova di sé. Sembra che mai, come nel nostro tempo, la “buona volontà” degli uomini non riesca a produrre effetti di giustizia. Chi conosca anche solo un poco la storia del cristianesimo sa bene che proprio da questo sconsolato riconoscimento si è lentamente affermata la legittimazione cristiana del ”mestiere delle armi”, come ultima possibile risposta alla violenza endemica nei popoli. Lo stesso sorgere degli “ordini militari” può essere capito solo in questa prospettiva: se è possibile rinunciare a difendere se stessi (e a volte questa rinuncia tocca la soglia del sublime), non è possibile rinunciare a difendere l’innocente oggetto di violenza cieca, se non abdicando colpevolmente alla difesa della giustizia.
3. Ma sembra che oggi riconoscere pubblicamente una simile tristissima necessità sia impossibile e che piuttosto convenga andare avanti in modo obliquo anziché retto, nella speranza che la storia, come tante altre volte è successo, sia in grado di risanare da sé le ferite che essa stessa si infligge continuamente. A meno che non si acceda all’idea (o all’utopia?) di alcuni laici, che pur da non credenti, arrivano ad auspicare che si torni a coltivare l’ “idea pasquale” dell’avvento di un tempo nuovo, che si apra alla “liberazione” dal passato e dalle sue storture.
4. Sono ormai anni ed anni che la violenza fondamentalista islamica macchia di sangue il mondo ed ancora non siamo in grado di comprenderla adeguatamente, né come fenomeno religioso, né come fenomeno sociale, né come fenomeno politico. Una cosa però dovremmo avere ormai compreso: l’indebolirsi progressivo e irrefrenabile dei legami sociali, politici, familiari, identitari che caratterizza quella che un tempo era definibile come la “cristianità” e che favorisce in modo impressionante l’islamismo non potrà essere contrastato né con un ingenuo, ancorché appassionato, impegno nei confronti di “nuovi diritti umani”, né con i freddi paradigmi della razionalità economico-finanziaria. Bisognerà tornare a parlare in modo francamente spudorato del male.
5. Alcuni anni fa Ivan Illich (I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, tr.it., Verbarium-Quodlibet, Macerata 2009, p. 172) propose, peraltro senza successo, un neologismo: Entbösung (in tedesco) o Diseveling (in inglese). In italiano potremmo parlare di demalificazione. L’ Entbösung non fa riferimento ad un’alterazione del bene (analoga ad es. a quella del bello, studiata nella Estetica del brutto di Karl Rosenkranz o nella Storia della bruttezza da Umberto Eco). Entbösung è il tipico fenomeno postmoderno che sostituisce la categoria del male con quella del disvalore, che, diversamente dal male è soggettivo e calcolabile.
Nel postmoderno bisogna combattere l’ Entbösung; bisogna imparare a individuare il male, a fronteggiarlo e a combatterlo. Bisogna convincersi di come sia necessario, per individuarlo, fare ad alta, altissima voce, discorsi di verità. Non tutti i linguaggi hanno la medesima forza comunicativa, non tutte le espressioni artistiche sono parimenti belle, non tutte le ideologie meritano rispetto, non tutte le affettività meritano comprensione, non tutte le tradizioni sono “vere”, come non lo sono tutte le pratiche religiose. Possiamo e dobbiamo accettare una pluralità di stili di vita, ma non possiamo accettare la relatività della giustizia: possono esistere molti e diversi modi di fare giustizia, ma il torto è sempre uguale a se stesso e il suo nome è violenza, arroganza, usurpazione, disprezzo, avidità, egoismo, à, egoismo, hybris. Esistono tanti modi diversi di pregare, ma tutte le preghiere hanno un unico destinatario: Dio. Non esistono tanti dèi, ma ne esiste uno soltanto: non il “nostro” Dio, ma il Dio che è padre di tutti gli uomini e che con la sua universale paternità fonda il primo principio di ogni antropologia: la fraternità che accomuna tutti gli esseri umani e la conseguente condanna dell’omicidio. Esiste oggi un discorso più spudorato di questo?
Danilo Breschi dice
Gent.mo Prof. D’Agostino,
articolo molto interessante.
Il male è questione centrale, non solo teologica e, più genericamente, religiosa.
Il mio commento è in realtà una domanda a chi ne sa più di me.
Rimarcare che ogni peccato, se accompagnato da sincero pentimento, può essere perdonato, cosa comporta in termini di definizione e, soprattutto, di individuazione del male?
Lo chiedo da laico, un po’ scettico, ma rispettoso e curioso di ogni discorso sul sacro e il mistero, della vita e della morte, e del bene e del male, appunto.
Un cordiale saluto,
DB