La crisi migratoria del 2015 ha spinto e indirizzato il processo decisionale sulla politica migratoria europea. Ne è nato un «Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo», comunicato dalla Commissione europea alle altre istituzioni europee, Parlamento, Consiglio ecc. il 23 settembre 2020.
La mossa della Commissione è apparsa più incisiva rispetto ai precedenti tentativi di riforma della politica migratoria in Europa. Forse la Commissione ha ritenuto di poter sfruttare lo slancio dello storico accordo di questa estate sul piano di ripresa economica dalla pandemia. Difficilmente, tuttavia, sarà raggiunto l’obiettivo di unificare le capitali europee dietro una politica migratoria comune dopo anni di profonde divisioni.
La principale novità è il superamento del principio della ridistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo, fatte salve le situazioni di crisi. Quel principio è stato fortemente contrastato dai paesi dell’Europa centrale e orientale, come l’Ungheria, mentre è rimasto centrale per gli stati costieri come l’Italia. Ma Orban non può rivendicare una vittoria completa. Gli ungheresi e gli altri paesi del gruppo Visegrad non hanno ottenuto i centri di migrazione al di fuori dell’Unione.
La mancata esternalizzazione del confine europeo è la premessa geopolitica su cui poggiano i nuovi pilastri della politica migratoria europea: aumentare la protezione comune delle frontiere esterne per favorire una concreta regolamentazione dei flussi, accelerare i rimpatri dei richiedenti asilo respinti, incoraggiando l’assunzione di responsabilità da parte di tutti gli stati membri, e aumentare la pressione dell’Unione europea sui paesi di partenza affinché si riprendano i loro cittadini.
In sintesi, tutti i membri dell’UE devono mostrare solidarietà con i paesi come l’Italia, che ospitano la maggior parte dei nuovi arrivati sulle coste europee. Questa solidarietà non si esprime normalmente accogliendo una parte dei richiedenti asilo, bensì ‘sponsorizzando’ i rimpatri dai paesi sotto pressione. Se questa attività resta volontaria, comunque ogni stato deve dare il suo contributo per una più efficace gestione dei flussi attraverso le frontiere di Schengen e impegnarsi a sostenere politiche comuni verso i paesi vicini.
Restano molti dubbi sulla capacità di attivare procedure più efficienti e rapide alle frontiere esterne dell’UE. La proposta di regolamentare gli accertamenti preliminari all’ingresso (screening) appare troppo condizionata dall’attuale emergenza sanitaria. Il nuovo meccanismo di «solidarietà e responsabilità» resta volontario e non è chiaro in che misura i paesi che non vogliono accettare richiedenti possano invece scegliere di gestire il loro rimpatrio nel caso in cui non venga concesso l’asilo.
I dati ufficiali citati nella comunicazione della Commissione mostrano che, in media, solo un terzo di coloro che sono stati respinti viene rimpatriato. Difficilmente potrà avere successo l’offerta ai paesi al di fuori dell’UE di condizioni favorevoli nel caso in cui si riprendano i loro cittadini. Il caso della Turchia resta unico e molto ambiguo, considerato che il paese è prevalentemente di transito. La stessa Commissione ne è consapevole quando osserva che 2,6 milioni di rifugiati sono presenti nell’Unione, mentre «la dichiarazione UE-Turchia del 2016 rispecchia l’intensificarsi dell’impegno e del dialogo con la Turchia, contribuendo anche a sostenere gli sforzi del paese per accogliere circa 4 milioni di rifugiati».
Il piano della Commissione non è decollato in occasione del primo incontro dei ministri degli interni dell’UE dello scorso 8 ottobre. Resta un’importante presa d’atto che il sistema di Dublino è superato. Piuttosto bassa è l’aspettativa che sia la base per avviare a breve negoziati su una politica migratoria comune europea. L’Italia si prepara una affrontare una nuova stagione con l’allentamento dei vincoli economici, ma rischia di dover corrispondere un impegno crescente nel Mediterraneo.
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