In Francia, stiamo vedendo come variazioni non drammatiche delle regole del sistema pensionistico pubblico siano osteggiate; in Italia, dal 1992 non abbiamo ancora smesso di discutere di modificazioni del sistema pensionistico. Le difficoltà nascono dal fatto che le regole di qualsiasi sistema pensionistico hanno un impatto redistributivo importante: servono a prevedere come distribuire il prodotto futuro tra chi sarà al lavoro e avrà contribuito a produrlo, quel prodotto, e chi sarà uscito dal lavoro per ragioni anagrafiche.
Quando, in Italia, la crescita demografica e quella della produttività di ciascun lavoratore erano sostenute, il problema distributivo sembrava inesistente: i molti giovani al lavoro, con produttività sempre crescente, creavano una disponibilità corrente di risorse sempre maggiore, che veniva proiettata con una dinamica invariabile nel futuro e consentiva regole sempre più generose nei confronti dei pensionandi e dei pensionati.
Da almeno tre decenni, demografia e produttività hanno rallentato significativamente le loro dinamiche e gli oneri delle generose promesse del passato, col tempo, sono diventati insostenibili, più o meno alla stessa stregua di ciò che è avvenuto negli altri paesi avanzati.
Il tutto era facilmente prevedibile anche nel passato e, già nel 1978, l’allora ministro del lavoro Vincenzo Scotti, sulla base delle prime avvisaglie di mutamenti strutturali nella dinamica demografica, propose una riforma in senso restrittivo del nostro sistema pensionistico. Ciò che avvenne fu invece l’esplosione delle baby-pensioni del settore pubblico e para-pubblico.
Il segnale che i demografi avevano allora osservato era la svolta nel tasso di natalità, che aveva raggiunto il picco nel 1965 e che si andava affiancando all’incremento progressivo della vita media attesa. Il tasso di natalità stava riducendosi rapidamente e, dopo il baby-boom del 1946-1965, stava ritornando sul trend secolare di riduzione già in atto prima della seconda guerra mondiale. Negli anni venti e trenta del novecento, le peggiorate condizioni economiche cominciarono a ridurre lentamente la propensione alla genitorialità e le forti migrazioni dall’Europa verso il continente americano e l’Australia avevano ridotto il tasso di crescita della popolazione attiva e in età fertile. Oggi, dopo cinquant’anni da quella svolta, il tasso di natalità non ha ancora smesso di ridursi, così come, per fortuna, la vita media attesa continua ancora a crescere.
Gli strumenti di analisi e previsione dei demografi su orizzonti di qualche decennio sono molto affidabili. Ad esempio, dopo il picco nei tassi di natalità nella seconda metà degli anni sessanta, oggi ci ritroviamo con circa un milione in meno di donne italiane nell’età più fertile (30-39 anni, si consideri che l’età media delle madri italiane al primo figlio è ormai di 32 anni); il numero dei nati da madri italiane continuerà, quindi, a ridursi nei prossimi decenni, anche se riuscissimo a mettere in atto politiche familiari in grado di riportare la propensione alla genitorialità ai valori dei decenni passati.
Queste considerazioni valgono per la popolazione autoctona; diverso è lo scenario se si considera l’entità e il comportamento della popolazione immigrata, ma l’evoluzione di quest’ultima è decisamente aleatoria per un complesso di ragioni facilmente intuibili. Per chiarezza del ragionamento, trascuriamo questo aspetto e consideriamo, come secondo esempio, un orizzonte temporale nel quale la sicurezza delle previsioni demografiche è molto elevata, il 2045.
Chi sarà in età di lavoro tra 25 anni è per la stragrande maggioranza già nato e a maggior ragione, in assenza di epidemie drammatiche, anche gli ultra sessantacinquenni a quella data. Ne consegue che possiamo affermare con ampi margini di certezza che, nei venticinque anni da oggi al 2045, l’eccedenza dei 70-74enni sui 20-24enni, che in questi anni è pari a circa 200 mila unità, passerà a circa 2 milioni. Questo ci dà una idea concreta di cosa vuol dire invecchiamento della popolazione. Un fenomeno progressivo e inarrestabile, dentro al quale già ci troviamo.
Infatti, nel quinquennio della legislatura attuale 2018-2023 il numero degli ultra sessantacinquenni aumenterà di un milione circa e quello degli italiani in età di lavoro si ridurrà di circa mezzo milione: centomila immigrati all’anno compenserebbero la riduzione delle nostre forze di lavoro potenziali.
Inutile sottolineare che le politiche del primo anno di questa legislatura sono andate esattamente nella direzione opposta: quota 100 ha aggiunto al milione ‘naturale’ di pensionandi in più i 300.000 circa di nuove pensioni anticipate; le politiche migratorie hanno ridotto l’arrivo di giovani forze di lavoro.
Queste sono evidenze empiriche dei fenomeni di fondo; più complessa è la realtà con tutte le sue sfaccettature. Con il 2012 e l’avvio della Legge Fornero si riteneva che il lungo cantiere della riforma del nostro sistema pensionistico, dopo venti anni, potesse considerarsi chiuso. L’applicazione completa delle nuove regole, approvata nel 1995, ci ha dotati di un sistema che, attraverso tre meccanismi automatici, è in grado di garantirne la sostenibilità.
Senza entrare nei dettagli: l’entità dei diritti pensionistici si espande con l’espansione delle risorse (copertura del rischio economico), il calcolo della pensione è collegato alla vita media attesa (copertura del rischio demografico), infine, anche l’età della pensione è collegata alla vita media attesa (riduzione del rischio di inadeguatezza dell’entità della pensione).
In realtà, i problemi posti dalla applicazione concreta hanno costituito un fattore di rigetto di parte delle innovazioni introdotte, ma ciò non impedisce che le correzioni possano non modificare eccessivamente l’operare dei servo meccanismi menzionati.
Nel caso degli anticipi dell’età della pensione, gli impegni distributivi futuri possono rimanere inalterati, se è rispettata l’equivalenza attuariale, ovvero, se il prodotto tra pensione annuale e numero degli anni di godimento atteso non cambia. Senza dimenticare che in tal modo, comunque, potrebbe sussistere il rischio inadeguatezza.
Nel caso delle politiche migratorie, se i nuovi arrivati vengono lasciati sostanzialmente a loro stessi, anziché avviarli a un percorso sistematico di istruzione linguistica e professionale, le loro possibilità di impiego rimarranno una potenzialità inespressa e aumenteranno i problemi e i conflitti sociali con effetti sulla gestione del sistema politico ed economico, il che aumenterebbe il rischio economico per l’intero sistema pensionistico.
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