Si va parlando, ormai da qualche tempo, di crisi della globalizzazione – una crisi che, iniziata ben prima dell’elezione di Donald Trump, sta registrando una preoccupante accelerazione dopo la nuova presidenza americana. È un fatto che, dall’inizio della crisi finanziaria del 2007-08, il commercio mondiale non si è più ripreso. Cosa è successo al libero scambio?, titolava un paio di settimane fa il prestigioso «Wall Street Journal». Si pensi anche al fallimento dei negoziati sul trattato del Ttip (Transatlantic Trade and Investiment Partneship) tra USA e UE, materializzatosi alla vigilia dell’ascesa di Trump. Un aspetto della questione non deve passare sotto silenzio: mentre abbondano riflessioni e analisi intorno ai possibili effetti negativi delle tendenze in atto, non altrettanto si può dire della ricerca delle cause profonde di quanto va accadendo. Per contribuire a colmare questa lacuna conoscitiva fisso qui l’attenzione su una delle cause che reputo di non secondaria rilevanza. Si tratta della circostanza che va diffondendosi, in un numero crescente di ambiti culturali e di gruppi sociali, l’insoddisfazione nei confronti della tendenza all’appiattimento delle varietà istituzionali dovute al fenomeno della globalizzazione. La quale ha fortemente accelerato, nell’ultimo quarantennio, quel processo di omogeneizzazione culturale che vale ad uniformare tra luoghi diversi tradizioni, stili di vita, norme sociali di comportamento.
Dove sta il problema? Nel fatto che la globalizzazione reale non è riuscita a far stare assieme la multiculturalità (cioè la presenza delle varietà culturali che è di per sé condizione di successo della dinamica sociale) e l’integrazione socio-economica dei vari paesi (cioè la convergenza verso livelli decenti di benessere, il che costituisce il presupposto della democrazia e della pace). Anzi, la globalizzazione ha esasperato il conflitto tra questi due obiettivi fondamentali: contatti e frequentazioni tra gruppi appartenenti a culture diverse provocano aggiustamenti comportamentali per rendere più agevole il coordinamento interpersonale e più pervie le transazioni economiche. A loro volta, però, i cambiamenti intervenuti nei comportamenti retroagiscono, sui valori e sui tratti culturali. Di qui il dilemma nuovo di questo nostro tempo: se si vuole limitare l’omogeneizzazione culturale occorre accettare ostacoli all’integrazione socio-economica e, viceversa, se si vuole favorire quest’ultima, occorre accettare un più spinto livellamento culturale. Ciò che fa problema – si badi – non è tanto la mescolanza di culture su un territorio, fenomeno questo presente già dall’antichità. Quanto piuttosto la mescolanza con rivendicazione di parità. Poiché culture che erano rimaste separate per secoli sono diventate, grazie alla globalizzazione, improvvisamente osmotiche, ciò che fa difetto è una qualche unità di intesa. E su questo problema non si registrano proposte concrete (e forse neppure un’adeguata consapevolezza).
Accade così che i luoghi dove vengono ‘prodotti’ le norme sociali di comportamento, i valori, gli stili di vita, sono oggi extraterritoriali e avulsi da vincoli locali, mentre non lo è certo la condizione di vita di coloro che sono legati ad un luogo specifico. Costoro si trovano quindi a dover attribuire un senso a modi di vita che non sono indigeni, ma importati da altrove. Come soleva dire Max Weber, se il mondo diventa grande, la gente vuole il piccolo. È in ciò l’origine dello sradicamento, della perdita di radici da parte di sempre più numerosi gruppi sociali, con le conseguenze di cui le cronache ci danno puntuale resoconto. Per dirla in altro modo, la globalizzazione va generando una crescente separazione tra i luoghi in cui viene prodotta la cultura e i luoghi in cui essa può essere fruita. Il ben noto fenomeno della deterritorializzazione non riguarda solamente le imprese le quali possono decidere con relativa disinvoltura dove localizzare le proprie attività produttive, ma anche i modelli culturali.
Che fare? C’è chi suggerisce di lasciare che il processo in atto avanzi secondo la sua logica interna, e c’è chi propone di arrestare, almeno parzialmente, la globalizzazione. Si tratta, in entrambi i casi, di scorciatoie inefficienti e comunque pericolose. Piuttosto, ritengo plausibile e percorribile un’altra via, quella che mira a modificare l’assetto istituzionale dell’ordine internazionale post-hobbesiano nella direzione della pluralità dei centri di potere, cioè della poliarchia, che, a differenza del pluralismo, non è solo numerosità ma anche diversità. Un primo passo in tale direzione è la promozione di un piano di redistribuzione del reddito a scala globale per aggredire l’endemico aumento delle diseguaglianze tra gruppi di persone (non tanto tra paesi). A scanso di equivoci: la globalizzazione ha ridotto e va riducendo la povertà assoluta (il che è un bene), al prezzo però di un aumento delle diseguaglianze – come la ormai celebre «Curva dell’elefante» di B. Milanovic (2016) dimostra a tutto tondo. Ebbene, se il 10% della spesa militare corrente nel mondo – circa 1.700 miliardi di dollari all’anno (http://www.sipri.org/databases/milex) – venisse dirottato su un Fondo Globale per lo Sviluppo, gestito da un’autorità indipendente, si genererebbero risorse sufficienti per superare nell’arco di un decennio la «globalizzazione dell’indifferenza» a favore di una globalizzazione inclusiva. Già Paolo VI nella sua Populorum Progressio (1967) aveva avanzato una tale proposta esattamente cinquant’anni fa.
Per terminare. Nonostante una certa retorica pseudo-scientifica, secondo la quale le regole del libero scambio mal sopporterebbero l’eterogeneità culturale e troverebbero nelle difformità dei modi di vita un ostacolo alla loro applicazione, occorre contrastare pensieri del genere. Perché la biodiversità economica e sociale è una ricchezza. Molte nazioni, nei momenti migliori della storia, si sono alimentate con la diversità esistenti al loro interno e ne hanno tratto frutti di civiltà e di successo. Ciò vale anche alla scala mondiale. Bisogna allora operare affinché il filtro selettivo imposto dalla competizione globale non annienti le varietà meno forti. Salvaguardare la diversità delle vie dello sviluppo è oggi il modo più efficace di combattere arroccamenti difensivi e di contrastare il desiderio di muri e di barriere.
Dino Cofrancesco dice
L’analisi è molto acuta, mi chiedo, però, come possa fare a meno di un’autorità politica, di uno Stato (nazionale o federale). Redistribuire reddito non è come redistribuire noccioline: bisogna togliere a qualcuno per dare a qualcun altro. E lo si può senza apparati di governo, polizia, tribunali?
Stefania Fuscagni dice
Condivido le osservazioni di Zamagni. Vorrei chiedergli di indicare le priorità da seguire in questo preciso momento storico. Questa richiesta gliela faccio guardando dalla finestra del mio studio l’enorme globo dorato sormontato dalla croce della cupola del Brunelleschi del duomo di Firenze che mi suggerisce che alla globalizzazione non potremo sottrarci ma che il percorso va illuminato da scelte che come la croce indicano dolore e resurrezione e soprattutto l’incarnazione nel nostro tempo oggi. Di qui le priorità. Stefania Fuscagni