Grazie a Gianfranco Pasquino. Per la solita lucidità e anche per aver posto la questione del consenso leghista nella chiave più convincente. La riassumo a modo mio, dunque maldestramente: loro stanno, cioè scelgono di stare e ci riescono pure bene, dove noialtri (nel senso della sinistra in senso lato) non siamo più in grado di andare. Perché non parliamo e capiamo quella lingua e perché in anni remoti e recenti abbiamo fatto scelte diverse. Ma andiamo con ordine. Le ultime elezioni, tra le altre cose, ci hanno consegnato una anomalia o un paradosso. Questo:
di fronte al fallimento dell’esperimento gialloverde (politica estera, grandi opere, l’isolamento in Europa, economia e crescita ferme) il conto è stato presentato per intero ai 5S mentre la Lega si è arrampicata al massimo storico del suo consenso.
Ora, di questo paradosso possiamo dare la lettura che vogliamo: ha pagato la linea dura sugli sbarchi, i comizi a cottimo, la “bestia” social di Salvini. E ovviamente la sintesi di Pasquino sull’aristocrazia della Ztl quando chiacchiera di migranti. Però un dato rimane: 9 milioni di italiani hanno bocciato una sola delle due anime di questa maggioranza senza imputare all’altra le difficoltà che inchiodano oggi l’economia e il paese.
Finora un tipo di reazione (in questo caso parlo del Pd) è stata improntata a un discorso razionale: questi sono degli incapaci e con noi le cose andavano meglio (e in questo c’è un fondo di verità: indicatori del Pil e non solo…).
Il punto è che questa risposta non è in grado di fare scoppiare la bolla della Lega. E non ce la fa anche perché ci sono dei dati che riguardano la vita degli italiani per i quali quell’argomento da solo non giustifica la loro condizione. Un paio di esempi bastano. Oggi in Italia il reddito pro capite è lo stesso di 25 anni fa, al netto delle guerre mondiali non era più accaduto dai tempi di Cavour. Produciamo quanto producevamo nel 2004. Potremmo citare il tasso di impiego femminile, di abbandono scolastico, di evasione fiscale, l’emergenza casa o redditi: tutte statistiche che spesso ci collocano in coda alle classifiche dell’Europa. Cose note: il tema è che milioni di elettori non credono che questi problemi siano frutto esclusivo di quelli di adesso.
Piuttosto sono convinti che una quota di responsabilità per le loro paure e difficoltà sia da imputare alle classi dirigenti che hanno guidato politica, economia e finanza (in Italia e in Europa) per un arco di tempo molto più lungo. Penso che anche in questa chiave vada letto il voto in tanti comuni: non è solo il giudizio su sindaci bravi, che certamente ha pesato.
Ma è la scelta di distinguere tra la fine di un ciclo dello sviluppo – il venire meno di un modello che per più di mezzo secolo ha sostenuto l’emanciparsi del ceto medio – e la tenuta sul piano locale di un filtro tra buone amministrazioni e qualità della vita. Se la cornice è questa, il tema fondamentale da qui al voto (quando sarà) è riuscire a dare dell’opposizione una percezione diversa. A me il punto sembra stia qui: che con una destra così paurosamente alta (e socialmente molto più trasversale che in passato) il messaggio non può essere “Sono incapaci. Torniamo noi” (fosse pure un centrosinistra rivisitato nella composizione, più largo e inclusivo rispetto all’ultima stagione, che poi a dirla tutta non è che ci vuole molto… basta smettere di insultare il mondo e già si fa un notevole passo avanti). Ma ripeto, questo da solo non basta, e non basta perché milioni di elettori possono convincersi che questi sono effettivamente degli incapaci. Ma non per questo sono disposti ad assolvere chi c’è stato prima.
Allora cosa fare? Per prima cosa credo si debbano prendere le misure esatte dell’avversario sapendo che abbiamo davanti una stagione difficile anche perché inedita: con una destra radicale e di massa che per la prima volta dopo settant’anni punta a impadronirsi delle leve del Paese. A eleggere, quando sarà tempo, il Parlamento più a destra della storia repubblicana. E con quello il prossimo capo dello Stato.
Ma è esattamente per questo motivo che un’Alternativa spendibile deve rovesciare il tavolo prendendo atto di un elemento: che non ci salverà il “mondo di ieri”: né sul piano del metodo né su quello dei contenuti. E allora (lo dico pensando a un dibattito tornato in auge tra alcuni) pensare che un ostacolo così alto si possa affrontare con la divisione dei compiti più classica – tu occupati di conquistare i moderati, tu raggruppa la sinistra – temo sia una scorciatoia a fondo cieco. Il punto è che senza recuperare al partito più grande della nostra metà campo una identità solida e di parte – senza restituire a quella forza una funzione e una lingua sue – noi faticheremo a rappresentare dentro la società italiana una alternativa alla peggiore destra di sempre.
Per fare questo penso sia fondamentale un cambio di categorie per i problemi della parte più offesa del paese. Vuol dire mettersi in sintonia con quei processi che investono l’economia, la cultura, – il modo di produrre, conoscere, scambiare beni e relazioni – che stanno plasmando una società diversa da prima ma segnata ancora da un tasso di diseguaglianza insopportabile (ed è la natura di quella diseguaglianza a gonfiare le vele della destra accentuando per quella via una fragilità della democrazia: perché se a milioni di persone togli anche solo la speranza di un riscatto nella dignità di sé la conseguenza è una democrazia che “non serve” e in quanto percepita come inutile o impotente vacilla). Il voto europeo ha contenuto questa spinta ma non l’ha archiviata, e il fatto che per la prima volta le forze più votate in Inghilterra, Francia e Italia siano espressione di una radice estremista deve tenere alto l’allarme
Il punto è che quella destra vince su un impianto culturale, su una ideologia. Cinica, fondata sulla paura: ma una ideologia. Se è così quella destra la si sconfigge con un altro impianto culturale e con un pensiero critico. Ma in un legame stretto tra i nostri valori e una lettura del tempo e dei conflitti che ci impone. È un lavoro faticoso, complesso. Però per tornare a vincere dovremo comunque passare da qui: dalla distanza (e diseguaglianza) sempre più evidente tra città e contado. Da una redistribuzione di ricchezza in un paese malato di immoralità. Da una denuncia più puntuale di una flat tax che premia due categorie: i molto ricchi e chi evade. Da un legame con le forze sociali abbandonando ogni pretesa di autosufficienza e liquidando una volta e per sempre quel termine – disintermediazione – che disarma la politica. Mi pare che con tutti gli acciacchi e le zavorre cumulate, il Pd ha impostato questa stagione nel modo giusto: partendo da una domanda di unità del campo largo. Adesso quell’unità deve rompere la parete della discontinuità (di linguaggio, prassi, alleanze) e questa, almeno per noi, sarà la vera prova dei prossimi mesi.
Dino Cofrancesco dice
«Il punto è che quella destra vince su un impianto culturale, su una ideologia. Cinica, fondata sulla paura: ma una ideologia.»
Se fossi Salvini mi sentirei tranquillizzato leggendo parole come queste.
Gianni Cuperlo dice
Grazie a Dino Cofrancesco, non so se leggere il suo commento come una battuta ironica e in quanto tale severa. Nel caso va bene lo stesso. Dovendo chiarire meglio quel mio passaggio proverei a citare una definizione offerta molti anni fa da Dossetti a proposito della matrice di ogni destra autoritaria (credo lui si riferisse nello specifico alla cultura fascista). Il senso era questo: una iniezione di paura (anche irrazionale) alla quale si offre un antidoto in cambio di una quota di libertà. Non è poco comunque. Cordialmente