Si è soliti definire la post-verità come l’era in cui la verità è stabilita meno dall’accertamento dei fatti che da enunciazioni di carattere ideologico-emotivo. Per tanti risulta frustrante sperimentare quanto l’esibizione dei ‘dati di fatto’ spesso nulla possa contro le fake news di qualsiasi tipo (scientifico, economico, politico). A mio avviso, questo accade anche perché sottovalutiamo il fattore fiducia quale elemento costitutivo dell’umana costruzione del sapere. Le contro-argomentazioni tese solo ad esibire la ‘inoppugnabile oggettività dei dati’, infatti, pur formalmente corrette, alimentando una certa ‘superstizione del dato’, favoriscono surrettiziamente il fenomeno che vogliono combattere. Per spiegarmi, sarà utile citare un brano delle Ricerche sull’intelletto umano di David Hume: «Se domando perché credete in qualche determinato fatto […] dovete dirmi qualche ragione; e questa ragione sarà qualche altro fatto, connesso con quello. Ma poiché non potete procedere a questo modo in infinitum, dovete per ultimo metter capo a qualche fatto, che è presente alla vostra memoria o ai vostri sensi; oppure dovete ammettere che la vostra credenza è completamente senza fondamento». L’approccio riassunto in questo passo è stato a mio parere giustamente giudicato autoritario da Popper in Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, poiché battezzare una certa fonte conoscitiva – in questo caso i sensi – come unico mezzo affidabile di conoscenza, comporta l’automatico (e irrazionale) tacitamento di qualunque altra. In aggiunta, Popper ha sottolineato pure che «la maggior parte delle nostre asserzioni non sono basate su osservazioni, ma sopra ogni altro genere di fonti». Dobbiamo onestamente riconoscere, infatti, per citare ancora l’epistemologo austriaco, che «la maggior parte delle cose che conosciamo le abbiamo imparate da esempi, o perché ci sono state dette, o perché le abbiamo lette nei libri, o imparando come criticare, come accogliere e accettare le critiche, come rispettare la verità», e che le conoscenze raggiunte con la ‘prova apodittica’ della verifica in prima persona sono la minoranza (tralasciando per motivi di spazio la fiducia che dobbiamo accordare ai nostri stessi sensi, dai cui inganni ci ha messo in guardia Cartesio, e agli albori della nostra cultura già Parmenide). È giusto sostenere che «la scienza non è democratica» se si intende con ciò che la correttezza delle sue asserzioni debba essere giudicata dagli specialisti e non da un sondaggio popolare, ma dobbiamo aggiungere, con onestà, che se non è la maggioranza a decidere a quale velocità la luce viaggia, è pur vero che solo una piccolissima percentuale di esseri umani possiede gli strumenti conoscitivi per controllare in prima persona se 300,000 km/s è o no la cifra giusta, se il deficit del nostro Paese è effettivamente aumentato quest’anno, o se c’è una correlazione scientifica seria tra vaccini e autismo, e via discorrendo. Il mondo, allora, non è diviso tra chi si confronta in prima persona coi fatti scientificamente comprovati e chi sceglie di credere a storie più o meno fantasiose. Se osserviamo le cose nella loro concreta fatticità – questo è il punto – è più esatto dire che a differenziarci, per lo più, sono le narrazioni che ciascuno di noi giudica più affidabili, e dovremmo indagare il perché, a seconda dei periodi storici, la fiducia in certe narrazioni – ad esempio quella scientifica – è più compatta ed omogenea che in altri. Detto altrimenti: la fiducia è un modo di esercitare la ragione, e dimenticarlo può facilmente aprire la porta a persuasioni tanto più pericolose quanto più inconsapevoli. Ecco perché contro la diffusione delle fake news in tempi di post-verità, una massiccia iniezione di dati ‘veri’ nei mezzi di comunicazione è naturalmente necessaria, ma rischia di essere uno sforzo sisifeo se non ci rendiamo conto che a fare la differenza in positivo è la diffusione degli strumenti per scegliere in modo ragionevole la narrazione più affidabile.
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Liborio Mattina dice
La verità è dunque in buona misura selezionata in base alle narrazioni che ciascuno di noi giudica più affidabili. Ma la fiducia in certe narrazioni piuttosto che in altre non rischia di riportarci alla casella iniziale del ragionamento? Cioè alla tanta rilevanza che gli orientamenti ideologici hanno sulle cognizioni che riteniamo più “veritiere”? Non è forse, invece, il caso di riaffermare con forza l’esigenza che le diverse comunità epistemiche guardiane della “verità” si impegnino in modo attivo a rivendicare la legittimità che va a loro riconosciuta purché operino con trasparenza, onestà e affidabilità (cioè facendosi garanti della correttezza dell’impresa scientifica)?
Andrea Melodia dice
Concordo con l’autore. Come “scegliere in modo ragionevole la narrazione più affidabile”? Occorre ricostruire la credibilità anche degli intermediari della narrazione. Pensando a me e ai miei colleghi professionisti dell’informazione e della comunicazione (non uso il termine “giornalisti” perché limita agli appartenenti a un Ordine ormai ciroscritto rispetto alla realtà professionale) e notando la nostra rilevanza rispetto alla salvaguardia della verità, vorrei dire che per ridare fiducia e credibilità alla categoria, che oggi è in rosso profondo, serve una drammatica ricostruzione della nostra etica professionale: e questo deve avvenire prima di ogni rivendicazione di legittimità. Vedo invece molto attiva quest’ultima, poco intrapresa la prima. E ricordiamo anche che, se i numeri dei giornali calano, quelli delle radio e delle televisioni restano alti, mentre l’informazione sul web in termini professionali è ai limiti della sopravvivenza.