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Perché le crisi attuali non sono ‘cigni neri’

9 Marzo 2023 di Vera Negri Zamagni Lascia un commento

Si sta ormai diffondendo un nuovo vocabolo – policrisi – per definire l’intricata situazione economico-politico-sociale in cui stiamo vivendo, che vede crisi di tipo diverso inanellarsi e contagiarsi da ormai una quindicina d’anni. La prima è stata la crisi finanziaria del 2008, tramutatasi in una crisi del debito che attanaglia soprattutto i paesi in via di sviluppo, ma anche il mondo ‘avanzato’ (Cina inclusa). Poi si è fatta avanti la crisi climatica, che peggiora di anno in anno. Nel 2020 è scoppiata la pandemia da Covid-19 e nel 2022 la guerra di Ucraina, con annessa crisi energetica e di malfunzionamento delle filiere produttive globali. Ogni volta ci siamo stracciati le vesti pensando a sfortune ricorrenti, a ‘cigni neri’ imprevedibili, ma è ormai sotto gli occhi di chi non nasconde la testa sotto la sabbia che si tratta di crisi annunciate. Fra tutte, quella ambientale si è era profilata almeno fin dagli anni ’90 e ha suggerito incontri internazionali diventati da ultimo annuali, in cui tuttavia le decisioni sono state sempre rinviate, fino a tempi recentissimi, quando si è dovuto prendere atto che si sarebbe dovuto agire ben prima. La crisi finanziaria del 2008 ha fatto seguito ad una liberalizzazione della finanza mai vista nella storia, che ha incentivato comportamenti altamente speculativi, responsabili della bolla che è esplosa in tale anno, ma anche di una finanza generalmente gonfiata e disfunzionale per lo sviluppo che ancora permane.

Quando nel 2020 è poi scoppiata la pandemia, tutti i paesi erano impreparati, a dispetto del fatto che l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS, in inglese WHO) erano anni che circolava informazioni sulla crescita delle epidemie, dovuta a condizioni di controllo locale inadeguate e alla crescente circolazione di persone e merci. Nel settembre 2019 l’OMS pubblicò un Rapporto intitolato Il mondo a rischio, dove spiegava l’alta probabilità di diffusione di un virus aereo, che scoppiò in Cina forse nel medesimo mese e si trasferì nel resto del mondo ad inizio 2020. Seguì il caos, le mascherine e i tamponi non si trovavano, i protocolli per arginare l’infezione non erano pronti. Non restò che il lock down, come tutti sappiamo, e poi finalmente i vaccini. Da ultimo, quando scoppiò la guerra in Ucraina nel febbraio 2022, di nuovo fu la sorpresa a prevalere, a dispetto del fatto che le scaramucce militari nel Donbass e in aree contigue erano state continue almeno dal 2014, quando la Crimea venne annessa di forza alla Federazione russa.

Domandiamoci: perché siamo diventati così vulnerabili a crisi di varia natura, nessuna delle quali è un ‘cigno nero’? La risposta è semplice: a causa del ‘corto-termismo’ in cui vivono le nostre società avanzate. Il corto-termismo ha varie origini. La prima è il consumismo, che spinge la gente a massimizzare i consumi presenti, anche a debito, rinviando nel lungo termine gli interventi strutturali. Il grave problema di questo approccio è che il lungo termine arriva, senza che i necessari interventi strutturali per arginare le crisi siano stati fatti. La massimizzazione dei consumi nel presente spinge a sua volta a supportare le produzioni low cost, per poter consumare di più. Il low cost è responsabile ad un tempo di gran parte della globalizzazione (per pagare meno il costo del lavoro occorre delocalizzarlo) e anche dell’abbassamento dei salari nei paesi avanzati (per limitare le delocalizzazioni). La seconda origine del corto-termismo è nei modelli degli economisti mainstream, che si occupano di cambiamenti al margine (senza mai occuparsi di cambiamenti strutturali e istituzionali) e hanno espunto le risorse dalle loro variabili, dandole come coeteris paribus. Togliere dai modelli la variabile risorse (particolarmente l’energia) significa rendere i modelli inservibili per cogliere le limitazioni che le risorse impongono sui sentieri di crescita, che vengono così lasciati a briglia sciolta, producendo poi strozzature ‘impreviste’. Il premio Nobel Douglass North e tanti altri avevano ammonito che tali modelli non sono in grado di discutere la crescita economica, ma non hanno avuto ascolto. Infine, la terza origine del corto-termismo è la politica, che si appiattisce sull’esistente supportando i consumi per raccogliere consensi, rinviando decisioni di intervento strutturale e istituzionale quando è troppo tardi e non si può fare diversamente.

Quante domande la gente si è fatta, a partire da quella della regina Elisabetta agli economisti sul perché non avessero previsto la crisi del 2008 per continuare con la domanda sul perché la diplomazia americana ed europea non avessero intavolato un serio negoziato con Putin sui problemi di sicurezza nello spazio europeo almeno 10 anni fa. Ma c’è una nota ancora più profonda con cui desidero chiudere questo intervento. La ricchezza tende ad ottundere e a convincere che la cornice istituzionale esistente sia adeguata e immodificabile. Così il potere nei paesi avanzati si concentra sempre di più nelle mani di chi non ha visione e non promuove trasformazioni, se non quando le crisi sono scoppiate e anche in tali casi cercando di cambiare il quadro istituzionale il meno possibile. Occorre esserne consapevoli, se si vuole avere qualche chance di contrastare questa deriva.

Archiviato in: Interventi Etichettato con: Globalizzazione, policrisi, crisi, consumismo

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