La storia degli equilibri mondiali è da riscrivere, ma si sta scrivendo. Il pubblico ne pare avvertito e cerca di regolarsi. Ma è allevato dalla televisione e dai social e, sotto tutti gli aspetti, rimane altamente disinformato. O, come amava dire Sartori, malinformato. Allo stesso tempo il pubblico viene nutrito di una informazione emotiva, alimentata da immagini che fanno commuovere o arrabbiare: il che spesso surriscalda i problemi al di là della capacità di risolverli.
La politologia (o forse dovremmo dire la geo-politologia?) si è affrettata a rendere il suo servizio di outreach al paese, attività che oggi è anche rendicontabile nella casella di ‘terza missione’. Tuttavia, mi pare rimangano schiacciati, quasi tutti, nella filosofia western della guerra ucraina, che tanto piace ai giornalisti: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, tanto prima o poi arrivano i nostri.
La politica estera contiene, accanto alla componente dell’interesse, quella dell’assolutezza: «momenti nei quali, ricordava più in generale Pizzorno, l’identità delle persone si trasforma, essendo diventata oggetto di conversione». Gli strumenti di conversione non si presentano come semplici dottrine con contenuti già pronti, ma hanno aspirazioni teorizzanti. Nel senso che tentano di spiegare il mondo con un proprio metodo, affinché eventi specifici non previsti dai grandi disegni possano essere interpretati.
Di fronte a una guerra capace di cambiare gli equilibri mondiali, il dibattito politico ha bisogno delle aspirazioni teorizzanti, necessita della ricerca sulla politica internazionale. Detto altrimenti, il dibattito politico ha bisogno del dibattito politologico. Ciò è inevitabile e avviene sempre con un effetto di stratificazione: i) una riflessione teorica, propria di un uditorio intellettuale, che oggi passa però attraverso riviste online, incontri online, libri online, disponibili a un più vasto pubblico (‘uditorio dei teologi’); ii) un discorso di massa per il vasto pubblico in sé, principalmente televisivo (‘uditorio dei parroci’). È nello spazio dei teologi che si formano le interpretazioni del mondo come se fossero acquisizioni scientifiche, per poi essere impiegate nello spazio dei parroci come argomenti da introdurre nel dibattito politico, per ispirare scelte e linee di governo.
Lo ripeto. È oggi in corso, in parallelo con la guerra, un cambiamento degli equilibri. Quindi un ripensamento del ruolo della NATO, dell’UE, della stessa politica estera italiana. Molto difficile ragionarne indossando l’elmetto. Faccio allora un appello a chi ha un ruolo per intervenire autorevolmente presso l’uditorio dei teologi e arginare l’effetto valanga dei siparietti televisivi (come quelli di un Formigli o di lì in su). Così come per le costituzioni, divenute lo strumento che regola universalmente l’esercizio del potere politico all’interno degli stati, ci occorre urgentemente una ‘ingegneria’ che metta a fuoco i motori del sistema internazionale contemporaneo. Che consenta di avanzare proposte da introdurre nel dibattitto politico. Con prudenza e senza inseguire le emozioni.
Che sia un’opera a più mani e non di una singola mente, aggiungerei. La prima parte di un lavoro del genere potrebbe essere intitolata ai sistemi di alleanze. Dovrebbe aiutarci a ragionare sul fatto che nelle relazioni internazionali vige il moral hazard, quindi sono centrali i meccanismi di costruzione della fiducia. La seconda parte si potrebbe intitolare a unipolarismo e multipolarismo, per comprendere in chiave binaria pregi e difetti dei due sistemi. La terza parte potrebbe essere quella dei temi e delle proposte, magari con qualche appendice sul caso italiano. Sartori docet.
Proprio il caso italiano merita un’ultima considerazione. Conosco poco il mondo dell’economia, ma abbastanza quello delle relazioni internazionali per poter dire che la ‘diplomazia del bazooka’ è un controsenso. Personalmente amo la chiarezza e capisco che in economia occorra aggredire i mercati. In politica internazionale c’è invece bisogno di prudenza e occorre misurare le parole. Ci siamo raccontati negli ultimi anni che il nostro obiettivo nazionale fosse mantenere in sicurezza il Mediterraneo allargato. Bene. Per dirla con Olaf Scholz, ora si tratta di gestire una Zeitenwende o, forse, per dirla con la ministra degli esteri britannica Liz Truss, un paradigm shift. E allora, niente fughe in avanti. Il passato della politica estera italiana ci insegna che, senza pensare di poter giocare un peso determinante, occorre gestire in autonomia il vincolo esterno che ci lega a Europa e Stati Uniti. Discutiamone.
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