A ragione, l’Italia è stata spesso descritta come una sorta di ‘terra eletta’ per il populismo: sebbene non esista ormai alcun sistema politico europeo in grado di sfuggire alla presa populista – come i risultati delle recenti elezioni tedesche confermano – il nostro paese sembra infatti costituire un terreno particolarmente propizio all’emersione e al successo di leader e partiti populisti. Tralasciando esperienze lontane nel tempo, come quella dell’Uomo Qualunque, l’osservazione rimane valida nella Seconda Repubblica e, anzi, non è difficile citarne gli esempi più emblematici: dall’affermazione della Lega Nord di Umberto Bossi, al roboante ingresso nell’agone politico di un leader come Silvio Berlusconi, per arrivare all’exploit elettorale del Movimento 5 Stelle.
Proprio riflettendo sulle condizioni che paiono aver favorito l’ascesa del M5S nel 2013, è forse possibile identificare uno schema concettuale in grado di contribuire a spiegare perché il quadro di vincoli e di opportunità che si produce nel nostro paese sembra sistematicamente avvantaggiare l’offerta politica del populismo.
A questo proposito, gli autori che si sono più volte occupati di definire il fenomeno (Mény e Surel, Canovan, Taggart) asseriscono che l’analisi del populismo acquista spessore e significato in connessione ai regimi democratici, entro i quali, per ragioni strutturali – che attengono cioè alla configurazione istituzionale delle democrazie o a fattori sociali caratterizzati da una relativa stabilizzazione nel tempo – la carta populista può sempre essere giocata. Famosa, a questo riguardo, la vivida metafora coniata da Margaret Canovan, per la quale populismo e democrazia identificherebbero una coppia di litigiosi fratelli siamesi – tenuta insieme dal comune riferimento alla ‘sovranità popolare’ (in democrazia temperata dal costituzionalismo, che ripugna invece al populismo). Se questa precisazione è utile per inquadrare la sostanza della questione, non ci spiega precisamente perché ci sono democrazie dove l’avanzata populista incontra meno ostacoli che in altre. In tal senso, semplificando un poco, si può pensare che le condizioni che sostengono la genesi e il successo dei partiti e leader populisti si collochino tanto nella sfera politica che nella società; e che, dal punto di vista del livello di analisi, agli elementi strutturali si affianchino quelli di matrice processuale – connotati in senso dinamico, che scorrono entro la struttura delle istituzioni politiche e sociali della democrazia matura senza modificarla. Incrociando i due criteri, otteniamo un rudimentale schema che classifica le cause di precipitazione del populismo in quattro classi: politiche-strutturali, politiche-processuali, socio-strutturali e socio-processuali. Proviamo ad applicarlo al caso italiano, cioè al successo del M5S nel 2013.
Sul piano politico-strutturale, è innegabile che l’interpretazione ‘letterale’ della democrazia (Sartori) della quale si è fatto promotore il M5S ha esercitato un certo fascino sugli elettori. Ciò pare principalmente imputabile ad una strutturale lacuna del nostro sistema politico, vale a dire l’a-sistematico collegamento tra formazione del governo ed esito delle elezioni – dal 1994 al 2013, solo 5 governi su 11 appaiono assistiti da una legittimazione elettorale diretta. A ciò va aggiunta l’esasperata personalizzazione della competizione politica, che viene sempre più percepita nei termini di uno scontro tra personalità piuttosto che di confronto tra differenti dottrine o visioni del mondo. L’evoluzione risulta agevolata, naturalmente, dal declino della politica ideologica, che, a livello di massa, nel nostro paese si è tradotta nel drastico ridimensionamento delle identificazioni nei partiti e nel conseguente sganciamento dalle lealtà partitiche di frazioni crescenti di elettorato, che diventano perciò disponibili ad essere mobilitate politicamente, specie da parte di soggetti outsider;
– sul piano socio-strutturale, la mediatizzazione della politica costituisce una proprietà strutturale della società italiana, che, in primo luogo, evidenzia l’influenza che i vecchi e i nuovi media esercitano sugli orientamenti dell’opinione pubblica e sul comportamento collettivo; in secondo luogo, gli stessi sviluppi hanno fortemente condizionato i percorsi di reclutamento dei leader politici poiché le capacità di trarre vantaggio dalla configurazione del sistema mediatico e di avvalersi in maniera efficace delle opportunità comunicative che esso dischiude rientrano ormai appieno nelle competenze necessarie ai fini del successo della leadership populista, caratterizzata da un elevato tasso di personalizzazione. Da questo angolo visuale, Grillo appariva un leader più attrezzato di altri a cogliere le opportunità dischiuse dall’arena mediatica;
– al livello politico-processuale: in linea con quanto affermato da diversi studiosi, la ‘convergenza’ tra i partiti maggiori, provenienti da tradizioni ideologiche e programmatiche divergenti, emblematicamente concretizzatasi nel governo guidato da Mario Monti (2011-2013), a sua volta sprovvisto di legittimazione elettorale, ha certamente accresciuto le probabilità di affermazione del Movimento 5 Stelle. Perché? Per un verso, la temporanea (ed obbligata) attenuazione del reciproco antagonismo tra le formazioni facenti parte di quella anomala maggioranza ha facilitato la percezione della classe politica come monolitica e auto-interessata, materializzando così la saldatura tra élite evocativa della ‘casta’, il target preferito della polemica pentastellata. Per l’altro verso, alle elezioni del 2013 nessuno dei partiti mainstream (PD, PDL, UDC e Scelta Civica) era nelle condizioni di offrire agli elettori una credibile alternativa alle politiche di austerity varate dall’esecutivo incumbent, dopo averlo sostenuto in Parlamento e averne avallato l’agenda. Combinandosi con i fattori strutturali, già questi sviluppi apparivano idonei ad alimentare le aspettative di successo dei populisti: che traevano però ulteriore linfa dalla crisi di rappresentanza in atto nel nostro sistema politico, che si manifestava tanto nella frammentazione del consenso elettorale, quanto nell’astensionismo (in costante incremento dal 1979 e che proprio nel 2013 raggiunge l’apice: 24%);
– sul piano sociale-processuale, il principale fattore su cui puntare l’attenzione sono gli effetti della crisi economica scoppiata nel 2008-2009, misurati da vari indici. La recessione fa da moltiplicatore alle istanze populiste, specialmente laddove, come nel nostro caso, il sistema politico e istituzionale si presenta strutturalmente fragile e per di più oggetto della delegittimazione proveniente dall’opinione pubblica In tal senso, è chiaro che la issue dei «costi della politica», ovvero dei privilegi economici riservati alla ‘casta’, nella campagna 2013 ha acquistato una salienza del tutto particolare, prestandosi egregiamente quale bersaglio verso il quale dirottare il risentimento largamente diffuso nei cittadini. Senza dubbio, il framing era congeniale ai populisti del M5S, che non esitarono a profittarne.
Ovviamente, il populismo italiano ha avuto e ha anche altri interpreti: l’intreccio di fattori sopra abbozzato contribuisce a lumeggiare i fattori che sostengono pure mobilitazioni populiste di segno diverso, accomunate al M5S dal comune riferimento ad un popolo eticizzato e variamente definito, nonché dai tratti dell’anti-elitismo e dell’anti-istituzionalismo. In tal senso, mutatis mutandis, il principale concorrente del M5S sul terreno del populismo appare Matteo Salvini. Allora, mentre ci avviciniamo alle elezioni politiche del 2018, possiamo trarre da queste considerazioni qualche conclusione per inquadrare i destini del populismo italiano? In realtà, è verosimile ipotizzare che la persistenza di un’offerta politica populista sia connessa a due fattori principali: la formazione di governi sprovvisti di legittimazione elettorale; il comportamento collusivo delle élite politiche mainstream. A giudicare dalla conclusione a cui è approdato il dibattito sulla riforma elettorale, con l’approvazione del Rosatellum, nessuna delle condizioni appare scongiurata nel breve e medio termine.
Giuseppe IERACI dice
Condivido pienamente l’analisi di Flavio.
Stefania Fuscagni dice
Splendido intervento sull’attualità politica sociologica e culturale!! Aggiungerei alcune ragioni storiche che illustrino il perché l’Italia sia stata una democrazia bloccata e non alternante!!! Stefania Fuscagni