Nel dibattito pubblico corrente esiste un equivoco lessicale, che è anche un equivoco politico. In questi mesi forse la parola più usata nei commenti e nelle cronache è quella di ‘populismo’. Di solito la qualifica di populista è riferita a ciascuno dei due partiti attualmente al governo o alla loro azione. Credo si tratti di una definizione sbagliata. Populismo è un termine scivoloso che non rimanda a una definita fenomenologia politica, ma può investire situazioni molto diverse e inassimilabili tra di loro. Basti pensare alla distanza che corre tra il populismo statunitense ottocentesco e il populismo sudamericano del ventesimo secolo. In sostanza, parlare di populismo non chiarisce le idee, ma evoca una mescolanza di situazioni e fenomeni diversi. Per definire l’azione dei due partiti di governo penso sia più appropriato adoperare un’altra parola, che appartiene da sempre al lessico politico e definisce un preciso tipo di azione pubblica: demagogia.
Per articolare la nostra opinione possiamo fare riferimento anzitutto alle definizioni contenute nel Dizionario di politica curato da Bobbio, Matteucci e Pasquino. Qui i movimenti populisti sono definiti come traenti ispirazione da «un costante riferimento al popolo» che è «considerato come aggregato sociale omogeneo e come depositario esclusivo di valori positivi, specifici e permanenti»; un riferimento, però, che non definisce un particolare opzione ideale o programmatica ma che si può attagliare «a formule diversamente articolate e apparentemente divergenti» (voce di L. Incisa). Al contrario la demagogia «è una prassi politica che poggia sul sostegno delle masse secondandone e stimolandone le aspirazioni irrazionali ed elementari distogliendole dalla reale e cosciente partecipazione attiva alla vita politica» (voce di G. Zucchini).
Fissate la categorie di riferimento anziché svolgere una disamina dettagliata dell’attitudine del governo legastellato ci limiteremo a un esempio che riteniamo indicativo dell’attitudine complessiva della maggioranza. Si tratta di una vicenda di alcuni mesi fa sulla quale però è utile tornare a riflettere a mente fredda. Intendiamo riferirci al cosiddetto taglio dei vitalizi dei parlamentari o, come è più giusto dire, al ricalcolo degli assegni agli ex deputati che nello scorso luglio ha suscitato tanto clamore. Come si sa, ma forse è bene ribadire, il problema dei vitalizi dei parlamentari era già stato affrontato e risolto dal governo Monti nell’autunno di sei anni addietro. All’epoca, contestualmente alla riforma delle pensioni, il ministro Fornero invitò i presidenti delle camere a modificare il regime delle cosiddette pensioni dei parlamentari. Da allora le pensioni degli ex parlamentari sono equiparate a quelle di ogni altro lavoratore, sono riscuotibili a partire dal compimento dei sessantacinque anni e sono calcolate con metodo contributivo e in base agli anni trascorsi in parlamento. A sua volta, quella del governo Monti era una decisione che coronava una serie di aggiustamenti e ritocchi già posti in essere in precedenza. Da tempo, per esempio, non esisteva più l’anticipo dell’età a cui riscuotere il vitalizio a partire dalla terza legislatura, che forse era la misura che più somigliava a un indebito privilegio. In altri termini il problema vitalizi era stato risolto da parecchio tempo e in maniera soddisfacente.
La delibera sbandierata con trionfalismo dal presidente della camera non ha segnato la fine dei vitalizi ma ha investito un ambito assai più limitato. Si è trattato, infatti, del ricalcolo dei vitalizi degli ex parlamentari. Una misura che riguarda un numero limitato di ex parlamentari, in genere anziani. In altri termini, si trattava di un capitolo di spesa che non sarebbe aumentato ma che, per ragioni naturali, era destinato a ridursi negli anni. Il risparmio preventivato era di quaranta milioni di euro. Soldi che, così dicevano i cinque stelle, promotori dell’iniziativa, sarebbero serviti a supportare, sia pure in modo puramente simbolico, le pensioni più basse. La stima, però, si è rivelata troppo ottimistica. Il ricalcolo pur penalizzando molti, favoriva qualche altro, per cui a conti fatti il risparmio si è rivelato ancora più basso: diciassette milioni. Ma neanche questo ancora più impalpabile simbolo verrà versato a sostegno delle pensioni minime. La gran parte degli ex deputati ha annunciato il ricorso contro la delibera della presidenza; un ricorso che si annuncia fondato. Il ricalcolo, infatti, è stato deciso sulla base di una legge che non esisteva all’epoca dell’erogazione dei vitalizi. Così si è deciso di accantonare per tre anni i diciassette milioni risparmiati per potere, nel caso, rimborsare i ricorrenti. In sostanza non si è trattato di una coraggiosa misura moralizzatrice bensì di purissima demagogia.
Mauro Barberis dice
Concordo con Marco Tarchi. E aggiungo che mi pare incredibile che qualcuno confonda ancora i populismi digitali attuali con i populismi otto-novecenteschi, e persino con la demagogia. Basterebbe osservare che quanto sino a ieri era l’eccezione oggi è la regola
Marco Tarchi dice
Forse, oltre alla voce del dizionario di politica, sarebbe il caso di leggere e discutere qualcosa delle altre centinaia di libri e migliaia di articoli pubblicati in campo scientifico negli ultimi 51 anni, dal convegno della London School del 1967 in poi. Ci si accorgerebbe che non c’è bisogno di ripartire a capo nella definizione del fenomeno. Che non si esaurisce nella demagogia.
Maurizio Griffo dice
L’osservazione è per molti versi giusta. Tuttavia l’articolo non voleva essere una riflessione politologica ma un commento all’attualità politica italiana. E qui a caratterizzare l’attività del governo è soprattutto la demagogia.
Stefania Fuscagni dice
Finalmente si fa chiarezza verbale! Speriamo che diventi comune!!! Stefania Fuscagni