Presentando l’associazione «le Agorà» da lui fondata, Goffredo Bettini, a torto o a ragione considerato l’eminenza grigia del Pd, ha ribadito che occorre saper distinguere tra il populismo di destra e autoritario e il populismo sociale, rispettoso delle regole elettorali e di un regime di libertà. Di fronte ad affermazioni di questo tipo, mi chiedo se la parola ‘populismo’ non sia ormai una parola malata, un virus linguistico che rischia di inquinare il dibattito pubblico domestico.
Del resto, non per caso il termine è tanto più inflazionato quanto più è lontano dalla sua origine storica. Origine che è duplice: il populismo russo da un lato e quello americano dall’altro. In Russia, l’etichetta fu inventata a metà Ottocento per indicare un movimento di intellettuali che, in opposizione all’autocrazia zarista, riscoprì il popolo, in particolare i contadini. Movimento che vagheggiava un socialismo romantico, agrario, tradizionalista, volto a ripristinare una mitica comunità incontaminata, in grado di resistere alle spinte modernizzanti provenienti dall’Occidente. Del tutto indipendentemente, a quel primo populismo ne corrispose, verso fine secolo, un secondo sull’opposta sponda dell’Atlantico, dove nel 1892 lo U.S. People’s Party indirizzò il malessere dei piccoli farmer proprietari del Midwest e del Sud contro grandi imprese, alta finanza e ambienti corrotti di Washington.
Come ha scritto Alfio Mastropaolo (Democrazia e populismo, in La democrazia in nove lezioni, Laterza, 2010), il termine populismo tornerà in auge per classificare i regimi nati in America Latina negli anni Venti del secolo scorso. Getulio Vargas in Brasile e Juan Domingo Perón in Argentina sono forse i due casi più noti. Entrambi attratti dai fascismi europei e dalle loro tecniche di mobilitazione del consenso, riuscirono a integrare ceti sociali prima condannati all’esclusione mediante una singolare miscela di manifestazioni di piazza, leadership carismatica e generosi provvedimenti paternalistico-redistributivi.
Ridefinito in questo modo, il concetto di populismo era pronto a fare il giro del mondo. Nella seconda metà del Novecento viene infatti impiegato per designare i movimenti nazionalisti e antimperialisti proliferati in Africa e in Asia. Il populismo terzomondista era, in verità, una categoria prevalentemente accademica. La novità di fine anni Ottanta è che trasmuta in una categoria mediatica e politica che però aveva bisogno di antenati. In Francia vengono trovati nel sanguigno movimento creato nei primi anni Cinquanta dal bottegaio di provincia Pierre Poujade, intriso di nazionalismo antiarabo, antisemitismo, rivolta fiscale, suggestioni antiparlamentari. In Italia sarà il «Fronte dell’Uomo Qualunque» fondato da Guglielmo Giannini nel 1946 ad essere riconosciuto come il suo avo più genuino.
Da ultimo, l’accusa di populismo si è riversata sul movimento pentastellato. Qui è opportuno aprire una breve parentesi. Al di là del rituale appello diretto al popolo sovrano, infatti, il populismo si è caratterizzato anzitutto come una rivolta contro la modernità. Il popolo dei movimenti populisti del terzo millennio è quello dei disoccupati, della borghesia minuta, dei disorientati, degli impauriti dalla globalizzazione. Il popolo al quale si rivolge o, meglio, si rivolgeva Beppe Grillo, invece, non è il popolo ‘semplice e umile’, ma è il popolo sofisticato del web; non nasce dallo spaesamento di fronte alla modernità, ma dalla modernità stessa.
Questo per dire che un po’ di populismo, senza neanche cercarlo troppo, si può scovarlo dappertutto. Tanto più, pertanto, occorrerebbe restituire al termine la sua originaria funzione descrittiva. Uno dei più autorevoli studiosi italiani del fenomeno, Marco Tarchi, lo definisce così: «Una mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione» (L’Italia populista, il Mulino, 2018).
Ora, condannare l’intolleranza verso ogni sorta di diversità, le ossessioni securitarie, le smodate passioni identitarie, i toni rissosi e triviali, la violenza verbale e il folklore demagogico che infestano la politica nazionale è perfino un imperativo etico. Ma qualificare, con snobistico disprezzo, ogni manifestazione di disagio popolare come protesta sterile e baccano da ignorare è, come disse Joseph Fouché a proposito della fucilazione del duca di Enghien (1804), peggio di un delitto: è un errore politico. È solo un modo miope per ridimensionare un problema molto serio: il distacco dei cittadini dalla politica, minaccioso preludio di un più grave distacco dal sistema democratico.
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