1. La pandemia non è la prima e non sarà l’ultima del ventunesimo secolo, ma già oggi la possiamo considerare come la più grande esperienza di comunicazione della scienza nella storia del mondo. Nei media assistiamo a un’esplosione di iniziative di scienza dei semplici cittadini (citizen science) ovvero di scienza senza scienziati, e possiamo dire che la pandemia ci invita a ripensare gli indicatori della scienza e innovazione responsabili (responsible research and innovation) per una rideterminazione dell’efficacia dello scambio tra il sapere degli scienziati e il sapere esperienziale delle comunità. In questo frangente, uno dei compiti che le scienze umane e sociali devono avocare a sé è la verifica dei livelli di prontezza sociale (societal readiness levels, SRL) ovvero dei livelli di integrazione nella società di nuove tecnologie, prodotti e servizi, come sono stati elaborati dallo Innovation Fund Denmark a integrazione dei livelli di prontezza tecnologica (technology readiness levels, TRL) della International Organization for Standardization.
2. Le dimensioni del disastro causato dal Covid-19 sono sempre più nette. Sono già stati superati i confronti con lo tsunami del 2004 e la nube tossica del 1986. Si guarda piuttosto alla bomba atomica del 1945 e alle carestie seguite alla crisi economica del 1929. Stiamo vivendo un cambio di paradigma, come lo descrisse la prima volta Thomas Kuhn: un processo che si innesca quando il pensiero dominante viene soppiantato da un pensiero perché si mostra incapace di spiegare numerose anomalie che non dovrebbero esistere. Niente sarà più come prima nell’economia, nella gestione della salute, nella scienza come nella vita di ogni giorno. Spetta ai governi stabilire norme per contenere il contagio e spetta agli scienziati proporre raccomandazioni che siano basate su dati che via via vengono messi a disposizione. Non possiamo escludere che dei virus altrettanto contagiosi possano, tra poco, mettere di nuovo in pericolo la vita di milioni di persone. Proprio per questo è importante farsi trovare non solo preparati (prepared), ma anche pronti (ready).
3. Le misure per assicurare la preparazione (preparedness) di una comunità rientrano nel quadro della prevenzione sanitaria e sono dunque obbligatorie, ovvero sono previste dalle leggi. Il testo ultimo di riferimento sono i paragrafi 25-26 dei Siracusa Principles on the Limitation and Derogation of Provisions in the International Covenant on Civil and Political Rights del 1 luglio 1984. Sono volontari, invece, e non possono essere imposti, i processi che inducono la prontezza (readiness) di una comunità rispetto all’accettazione di nuovi contenuti e processi. La prontezza dipende dall’efficacia dello scambio tra il sapere della comunità scientifica e il sapere esperienziale del grande pubblico. In questo quadro, è utile tenere presente che il bisogno che si ha di una scienza dei cittadini è legato alla fragilità del sapere esperienziale (fragility of experiential knowledge), cioè di quella conoscenza che, pur non essendo scientifica, è prodotta attraverso esperienze e attività dei laici ed è razionale e solida, restando tuttavia fragile. Il sapere esperienziale, ci insegna Dominique Foray, è locale, poiché nasce da esperienze particolari e si applica in contesti molto particolari, ed è fragile, poiché non solo sono poche le persone che lo possiedono ma, non essendo codificato in maniera ampia, non è facile trasmetterlo e sparisce quando scompaiono le persone che l’hanno attivato.
4. La definizione di riferimento per la preparazione della comunità (community preparedness) a fronte dei rischi epidemiologici è stata proposta dagli U.S. Centers for Disease Control and Prevention nel 2018 e aggiornata nel gennaio 2019: «the ability of communities to prepare for, withstand, and recover from public health incidents in both the short and long term». Tornando al Covid-19 e prendendo come riferimento un territorio (paese, regione, città metropolitana, provincia, area interna), oggi sappiamo che le amministrazioni centrali e locali devono dotarsi di infrastrutture di gestione, inimmaginabili prima del Covid-19, per la vaccinazione, il rispetto delle cautele di distanza sociale e il tracciamento dei casi positivi.
5. Nel caso di disastri naturali, e tale è la pandemia, si tratta di attivare processi di innovazione sociale e culturale che rendano le comunità non solo preparate (dalle amministrazioni centrali e locali) ma anche, e soprattutto, pronte a rispondere (spontaneamente) a eventi catastrofici sul proprio territorio mediante accesso ai dati, partecipazione in comunità di pratica, co-creazione, riflessione e inclusione. La cultura è tradizione, si dice, e non ha bisogno di innovazione. In realtà, oggi conosciamo le potenzialità dell’innovazione culturale, che si ricarica e si rinvigorisce attraverso le esperienze di innovazione sociale e i processi di innovazione tecnologica. L’innovazione culturale guarda alla riflessività, ovvero alla capacità dell’individuo di distinguere determinati elementi nella massa indiscriminata del flusso di contenuti esperienziali, isolarli e concentrare l’attenzione su di loro. Guarda però anche all’inclusione, nel contesto di una società civile diversa al suo interno ma fondata su esperienze condivise, beni comuni e spazi di scambio. Le amministrazioni centrali e locali sono le prime che devono lavorare sulla prontezza delle comunità a ricostruire meglio di prima (building back better), secondo il paradigma divulgato dal Sendai Framework Agreement for Disaster Risk Reduction 2015-2030. La disponibilità di contenuti culturali contribuisce all’accettazione dell’altro, al dialogo, alla condivisione, alla salute e al benessere mentale. Nei mesi che ci troviamo davanti, avremo bisogno di molta partecipazione, oltre che di responsabilità.
6. Occorre riflettere affinché l’emergenza della pandemia non vanifichi il lavoro fatto finora per il raggiungimento nel 2030 dei diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Sostenibile è lo sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere la soddisfazione di quelli delle generazioni future. Tra i più probabili effetti del Covid-19 si parla di aumento della povertà della popolazione vulnerabile per perdita di reddito, chiusura delle imprese di micro, piccola e media dimensione, aumento della disoccupazione, depauperamento e difficoltà di accesso all’educazione di qualità, della quale pagheranno maggiormente le conseguenze le donne, la cui emancipazione sarà rallentata. Sono a rischio l’Obiettivo 1 (porre fine alla povertà), il 3 (salute e benessere), il 4 (educazione di qualità), il 5 (uguaglianza di genere), il 6 (acqua e igiene), l’8 (crescita e occupazione), il 10 (ridurre le diseguaglianze) e il 16 (pace e giustizia). Le Nazioni Unite chiedono concordia globale per affrontare la crisi della pandemia, che «rischia di cancellare decenni di progresso nella lotta alla povertà e di esacerbare i già alti livelli di disuguaglianza nei Paesi e tra i Paesi». Questa anche l’esortazione di Papa Francesco: «oggi più che mai è il momento di guardare ai poveri».
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