Il clima di forte attesa e di tensione politica, destinato a crescere nei prossimi giorni, intorno all’elezione del prossimo Capo dello Stato, è la migliore riprova del peso politico-istituzionale che tale carica ha assunto nel nostro sistema politico-istituzionale. Non che i nostri costituenti avessero per essa disegnato un ruolo meramente onorifico e decorativo. Ispirandosi al modello del Sovrano statutario, i Padri costituenti hanno attribuito al Presidente della Repubblica rilevantissimi poteri in relazione a tutti e tre i poteri: il rinvio delle leggi approvate dal Parlamento; l’emanazione dei decreti legge e dei decreti legislativi del Governo; la nomina di un terzo dei giudici della Corte costituzionale; il potere di grazia e di commutazione delle pene; la presidenza del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa. Ma soprattutto due poteri che in genere, nei sistemi parlamentari, non spettano al Capo dello Stato: la nomina del Governo e lo scioglimento delle Camere.
A Costituzione invariata, quindi, il nostro Capo dello Stato avrebbe tutti gli strumenti per ‘governare’. Lo stesso limite della ‘controfirma’ dei ministri proponenti per la validità di tutti i suoi atti potrebbe essere di fatto superato nominando un ‘governo del Presidente’ che ottenga ovviamente la fiducia delle Camere, secondo il modello semi-presidenziale alla francese.
Se così finora non è stato è perché, nel nostro ordinamento, il Presidente della Repubblica non è e non deve essere soggetto di parte. Egli è, infatti, chiamato a rappresentare «l’unità nazionale», «non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, nel senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica» (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2013).
Per questo non è eletto direttamente dagli elettori ma dal Parlamento in seduta comune con maggioranze superiori a quella (semplice) richiesta per la fiducia al Governo. Qualunque campagna elettorale (così come qualunque dibattito parlamentare prima del voto) comprometterebbe infatti tale ruolo di garanzia dell’equilibrio costituzionale, dandogli inevitabilmente una inaccettabile coloritura politica. Analogamente egli non è responsabile politicamente per i suoi atti (tranne nei casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione) perché questi non sono espressione dell’esercizio di un potere politico.
Al consolidamento del Presidente della Repubblica come arbitro del corretto funzionamento delle istituzioni ha contribuito certamente la prassi. Tutti i Presidenti della Repubblica non sono mai stati leader politici. Nella c.d. prima Repubblica la Democrazia cristiana ha sempre finito per eleggere – sia detto con il massimo rispetto – suoi esponenti di secondo piano e mai i suoi leader più importanti (come Moro e Fanfani). E lo stesso è accaduto nella c.d. seconda Repubblica, quando la carica di Capo dello Stato è stata ricoperta da personalità certo autorevoli ma che non sono mai stati Presidenti del Consiglio (Napolitano, Mattarella) o che lo sono stati in ragione non della loro appartenenza politica ma delle loro competenze tecnico-professionali in frangenti particolarmente delicati della vita politica nazionale (Ciampi). Da questo indirizzo non ci si dovrebbe mai discostare. Ciò vale sia per il passato (Prodi) che per il futuro (Berlusconi) ma, soprattutto, vale in ragione del peso politico che il Presidente della Repubblica ha progressivamente acquisito a causa della debolezza del sistema politico e che l’hanno di fatto trasformato nel ‘motore di riserva’ del nostro sistema parlamentare quando il primo, basato sul rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, s’imballa.
Difatti, nell’ambito delle attribuzioni costituzionali, il ruolo del Capo dello Stato varia in base non solo alla personalità politica ed al carattere del titolare (essendo l’unica carica monocratica) ma anche al contesto politico: se stabile, egli tende ad avere un ruolo marginale; se instabile, invece, tende ad espandere i propri poteri fino talora a svolgere una funzione di supplenza, ponendosi come «reggitore dello Stato nei momenti di crisi del sistema» (Esposito). È la fortunatissima immagine coniata da Giuliano Amato della fisarmonica che si «apre» e si «chiude» a seconda del momentum. Per questo nel costituzionalismo francese, meno avvezzo del nostro ad erigere steccati tra diritto costituzionale e scienza della politica, da tempo si parla dell’Italia come di una «forma parlamentare con correttivo presidenziale» (Lauvaux e Le Divellec).
Nel momento in cui scriviamo l’auspicio allora è che nella scelta del prossimo Presidente della Repubblica si tenga conto di queste coordinate, di modo che egli continui ad essere ciò che finora è stato e cioè – come l’ha definito la Corte costituzionale nella sentenza sopra citata – «organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri [quando] in ipotesi tendenti ad esorbitanze o ad inerzia».
Gianfranco Pasquino dice
la metafora della fisarmonica accennata da Giuliano Amato e variamente (ri)elaborata fin dall’ìnizio degli anni novanta da Gianfranco Pasquino….
anche Segni e Cossiga erano stati capi del governo. Problematica, ma non insuperabile, è la transizione diretta da Palazzo Chigi al Quirinale. C’è molto da imparare.