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Progresso economico e tecnologia: luci e ombre

9 Gennaio 2023 di Mauro Gallegati Lascia un commento

Come noto l’economia è stata spesso definita come la «triste scienza», proprio perché descriveva la fatica dell’uomo nell’ottenere le calorie giornaliere appena sufficienti per sopravvivere, tra lo Scilla del lavoro ed il Cariddi della pressione demografica. Il che non ha impedito alla ricchezza di essere distribuita in modo del tutto ineguale, secondo una legge di potenza, formulata per la prima volta nel 1896 da Pareto – per cui il 20% della popolazione possiede l’80% della ricchezza totale, ossia l’1% ne possiede il 40%.

Questa lotta per la sussistenza caratterizza tutto il periodo pre-capitalistico fino alla metà del Settecento, quando la prima rivoluzione industriale con la tecnologia della macchina a vapore ha iniziato a liberare l’umanità con lo sviluppo (letteralmente s-viluppare è liberarsi dai viluppi, cioè dai vincoli). Quello che Keynes aveva in mente in una prospettiva secolare – piuttosto insolito per un economista che sosteneva «nel lungo periodo siamo tutti morti» – è che il tempo di lavoro dell’uomo dedicato alla produzione di beni e servizi dedicati al soddisfacimento dei bisogni primari – «il problema economico» – sarebbe stato progressivamente ridotto grazie alla tecnologia. Il progresso tecnologico ha permesso dunque di ridurre, e in prospettiva liberarsi, dal problema economico, pur generando disoccupazione tecnologica. Le macchine rendono sì più facile produrre, ma ‘rubano’ lavoro ai lavoratori. Ai quali non resta che un’alternativa: o migrano verso nuovi lavori per produrre beni e servizi nuovi e si guadagnano da vivere col salario, o si introduce un reddito ‘di base’ indipendente dal lavoro – magari finanziato dalla proprietà agatopica delle macchine come indicava James Meade, un allievo di Keynes – ed allora il problema non sarebbe stato più quello della sussistenza economica, ma di come impiegare il tempo libero.

La storia ha poi scelto la prima strada: se l’attività lavorativa fosse rimasta dedicata al solo lavoro per i beni necessari e il loro numero non si fosse ampliato avremmo avuto molto tempo libero. Una volta fuggiti dalla trappola malthusiana – secondo cui un aumento della quantità di beni prodotti grazie alla tecnologia sarebbe stato annullato in termini pro-capite dall’aumento della popolazione – il numero di beni e servizi che entrano nel paniere dei beni essenziali è invece continuato a crescere nel tempo, creando nuovi beni e lavori. La produzione si è estesa non solo verticalmente – in quantità – ma anche orizzontalmente – in qualità, ossia più beni e servizi.

Il passaggio dalla produzione di beni strettamente legati alla sussistenza a prodotti nuovi è sottolineato da Adam Smith: mentre nelle società pre-capitalistiche la varietà è limitata (nelle occupazioni e quindi nella produzione) a causa della scarsa specializzazione dell’individuo, «in uno stato civile» c’è una varietà quasi infinita nelle occupazioni. Se la crescita economica può essere semplicemente correlata ad un aumento della produzione dati determinati input quantificabili, la nascita di nuovi prodotti, servizi e settori paragonabile a quelli già presenti nell’economia, provoca un cambiamento qualitativo dell’economia soddisfacendo bisogni che non erano stati soddisfatti prima di quelle innovazioni. Lo sviluppo economico è un processo di trasformazione che è il risultato di due tendenze di lungo termine: efficienza crescente e crescente varietà. La prima consiste nell’aumentare il rapporto tra output e input, quindi, la produttività, mentre quest’ultima è caratterizzata dalla crescita dei prodotti e dei servizi scambiati sui mercati. L’innovazione che mira a trovare una nuova combinazione di input o una combinazione più efficiente di quelli già utilizzati dipende dall’incentivo a ridurre i costi o dalla creazione di nuovi beni che garantiscano una posizione di monopolio per trarre profitto dall’innovazione.

La riduzione della quantità di lavoro necessaria a produrre i beni di sussistenza è avvenuta grazie alle macchine che incorporano la nuova tecnologia. Questo ha prodotto nuovi disoccupati, ma anche aperto la possibilità di produrre nuovi beni e disoccupati pronti ad essere riqualificati per ottenere nuovi impieghi. La fuga dai beni di sussistenza a quelli ‘nuovi’ è corrisposta al passaggio progressivo dall’agricoltura alla manifattura ai servizi. Ad esempio in Italia la composizione dell’occupazione passa dal 70/15/15 del 1861, al 20/50/30 nel 1971, fino al 5/20/75 di oggi.

La produttività in economia si misura non solo attraverso la capacità di produrre – quanti quintali di grano un contadino produce all’anno – ma anche attraverso i prezzi (per confrontare beni diversi). Può avvenire così che la produttività fisica, cioè il numero di beni prodotti da ciascun lavoratore, rimanga costante mentre la produttività in valore diminuisca. E questo solo perché il prezzo del bene cala. Ciò e accaduto ad esempio in Europa ai tempi della prima grande depressione, quella del 1880, quando l’afflusso di grano dagli Stati Uniti ha provocato la diminuzione del prezzo per cui sebbene la produttività fisica del contadino europeo non cala, quella in valore crolla. È sempre più difficile misurare la produttività mano a mano che dalla misurazione dei beni fisici si passa ai servizi. Tanto che ad esempio la produttività di un impiegato o di un insegnante è misurata a seconda della sua propria retribuzione perché la teoria dominante – che, vale la pena ricordarlo, non è analiticamente coerente – ci dice che ciascun lavoratore guadagna una retribuzione pari alla produttività. Se tuttavia nel tempo il tipo di innovazione cambia – dall’innovazione di processo a quella di prodotto – sorge il problema della misurazione della produttività. Si immagini esempio un brano musicale: ai tempi di Mozart era possibile ascoltare un concerto solo al momento della sua esecuzione; ciò non è più vero oggi. Già prima della seconda guerra mondiale col grammofono era possibile riprodurre il brano scelto ed alla radio ascoltare un concerto eseguito in altre parti del mondo. Col la «rivoluzione 4.0» il costo di ascoltare musica si è progressivamente ridotto verso lo zero e la riproduzione ridotta al costo di un click: poiché anche i prezzi seguono i costi, i profitti si annullano e la produttività crolla progressivamente. Le innovazioni così aumentato il benessere, ma quelle tecnologiche che hanno facilitato e reso quasi gratuite le prestazioni musicali ne hanno distrutto l’industria. E così accadrà per la manifattura tutta. Siamo più ricchi di quello che le nostre parziali misure ci inducono a credere. E così, in nome della ricerca del profitto di oggi, siamo finiti in una
trappola ecologica che sta distruggendo il nostro ‘capitale naturale’.

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