In che modo le trasformazioni che stiamo osservando in questi ultimi anni sulla scena politico-elettorale si riflettono anche nel nostro dibattito pubblico, soprattutto sui mezzi di comunicazione? Praticamente tutte le elezioni che abbiamo osservato nell’ultimo decennio, sia in America che in Europa, hanno registrato alcune tendenze che non sono solo collage di episodi isolati, ma segnalano ormai precisi mutamenti strutturali: 1) il progressivo indebolimento dei partiti ‘tradizionali’, legati alle culture politiche che hanno dato vita e sostanza nel secolo scorso alle liberaldemocrazie; 2) tra questi partiti mainstream quelli maggiormente colpiti da una crisi di consenso per nulla passeggera sono stati quelli socialdemocratici (e non della sinistra tout court); 3) il restringimento dell’area dei partiti tradizionali e il loro avvicinamento ideologico ha aperto la strada (o forse un’autostrada) alla formazione di partiti ‘alternativi’, che hanno contribuito a frammentare i sistemi partitici e a rendere più complicata la formazione di maggioranze di governo; 4) in mancanza di immaginazione politica e politologica, i nuovi partiti oggi in crescita sono stati pigramente inseriti nella categoria onnicomprensiva dei ‘populisti’, al cui interno si trova di tutto e di più, dal petrol-socialism latinoamericano all’illiberalismo autoritarieggiante dei paesi di Visegrád, senza dimenticare i nostrani populismi double-face, buoni per tutte le stagioni di lotta e di governo, gialli-verdi-blu per mimetizzarsi dietro la sbiadita identità italiana.
Ma queste trasformazioni politiche come sono entrate nel nostro discorso pubblico e come sono state raccontate dai mass media? O meglio: quanto i mutamenti che ho sommariamente richiamato in precedenza si sono riflessi nel racconto pubblico che leggiamo sui nostri quotidiani? Per rispondere a questa domanda, ho analizzato gli articoli apparsi sui giornali italiani dal 2002 fino ad oggi, misurando la frequenza con cui hanno fatto riferimento a dieci specifiche ‘ideologie’: comunismo, ecologismo, socialismo, europeismo, cattolicesimo, liberalismo, populismo, sovranismo, nazionalismo, fascismo. Lo so, non tutte sono ideologie nel senso pieno del termine e alcune – se così posso dire – lo sono più di altre. Ma l’importante è intendersi e qui stiamo soltanto conteggiando quanti articoli, contenenti quelle dieci categorie, sono stati scritti sui quotidiani italiani negli ultimi sedici anni (circa 170mila). I puristi dell’ideologia chiudano un occhio, per una volta, o se ne facciano una ragione.
Qual è dunque l’ideologia più discussa sui giornali italiani? Almeno fino al 2005 il primato era conteso tra le due dottrine più estreme – fascismo e comunismo – il cui riferimento era presente in quasi il 50% degli articoli che sono stati analizzati. A partire dal 2008 gli articoli sul comunismo si sono progressivamente ridotti di circa i due terzi, e oggi sono appena il 9%. Nonostante la stanca retorica berlusconiana, i comunisti e i loro ideali sembrano ormai definitivamente caduti in disgrazia, anche nei giornali.
La presenza delle “ideologie” politiche sui quotidiani italiani, 2002-2018 (%)
Chi non se la passa affatto bene, almeno per quel che riguarda la presenza nel dibattito pubblico, sono le tre ‘ideologie’ che qualche anno fa avremmo potuto tranquillamente definire mainstream, ma che oggi appaiono in isolata minoranza: liberalismo, socialismo e cattolicesimo. Sui liberali italiani (e il loro liberalismo) non c’era molto da aspettarsi. Minoranza erano e minoranza restano/eranno, in parte per colpa degli stessi intellettuali liberali, spesso ondivaghi o supini nella difesa dei loro principi, ma soprattutto per l’assenza di una vera cultura liberale nella società italiana. Diverso, invece, il discorso per il cattolicesimo, che è stato per lungo tempo dominante nella cultura popolare e nella politica in Italia e poi è finito stritolato nella strettoia maggioritaria e bipolare. Per qualche tempo, almeno finché (r)esisteva una componente moderata nella società italiana, il giochino dell’influenza simmetrica dei cattolici sulla politica, ottimamente orchestrato dal sottile cardinal Ruini, ha funzionato. Ma appena la moderazione si è rintanata in soffitta, il peso politico specifico dei cattolici italiani si è fatto più leggero di una piuma e neanche la popolarità di un Papa pop come Francesco I sembra in grado di invertire la rotta.
Da ultimo, il socialismo – che in Italia ha conosciuto fortuna altalenante e una fine politica indegna – oggi si è ristretto a qualche dibattito tra nostalgici di un glorioso passato ed eredi di un garofano ormai completamente appassito: nel 2018 se ne ritrova qualche sparsa traccia soltanto nel 6% degli articoli, spesso per richiamare quello che succede oltre Manica (con Corbyn) oppure oltre Oceano (con Sanders). L’ultima impennata – per così dire – di socialismo sui quotidiani italiani si è registrata nel 2007 (25,2%), forse come forma estrema di resistenza di fronte al sincretismo ma-anchista del PD veltroniano. Da allora, il socialismo ha iniziato la sua parabola discendente, un po’ come accaduto per tutti i partiti socialdemocratici europei, che speravano di raccogliere i frutti elettorali di una crisi economica nata a destra e finita, paradossalmente, ancora più a destra, tra le braccia di leader xenofobi, nativisti e nazional-populisti.
Quindi, anche osservando il dibattito pubblico che ogni giorno si sviluppa (o inviluppa) sui quotidiani italiani, il dato che emerge è in linea con il quadro elettorale tratteggiato all’inizio, in particolare con il progressivo indebolimento, se non la definitiva scomparsa, delle culture politiche tradizionali sui cui sono sorrette le democrazie liberali. In compenso, si è fatta strada una nuova ideologia a bassissima intensità, capace di rivolgersi a tutti senza dire nulla e che, per alcuni studiosi, è diventata il nuovo Zeitgeist, anzi il nuovo Zelig della politica contemporanea che ha fatto dell’assenza di un’identità il suo tratto distintivo. Infatti, non poteva che essere il populismo il veicolo ideologico perfetto per questi nuovi tempi liquidi, dove uno vale uno e uno vale l’altro, in cui destra e sinistra si equivalgono (o così dicono) e il più lungimirante dei progetti politici scade più rapidamente di uno yogurt.
Sono i tempi vuoti della storia quelli nei quali la politica si riempie la bocca di populismo, facendo del popolo – il «significante vuoto» per eccellenza, direbbe Laclau – un riferimento costante e asfissiante di ogni attività pubblica. Negli ultimi anni quasi il 30% degli articoli analizzati si richiamavano, nel bene o nel male, al populismo, con un trend crescente che sembra essere iniziato nel 2009 con la nascita del Movimento 5 Stelle e che è cresciuto fino a diventare il nuovo mantra dei giornalisti e degli editorialisti, il passpartout che gli permette di riempire in fretta un paio di colonnine senza dire nulla o, meglio (anzi, peggio), per aggiungere sciocchezze al caos del coro populistofono (si veda, a mo’ di esempio, la maestria con la quale Galli Della Loggia straparla di populismo sul Corriere delle sera).
Così, in maniera invisibile e strisciante, il populismo è diventato l’ideologia del nostro tempo, un contenitore vuoto da riempire a piacimento, lo specchio delle nostre brame dove vediamo riflessa la nostra identità indefinita. E poco importa che discutere di populismi e populisti sia come parlare di nulla. Perché proprio questa è l’essenza del populismo: il niente travestito da tutto. Descrizione perfetta della politica e della società contemporanee.
Marco Tarchi dice
In assenza di precisazioni sul metodo adottato, mi chiedo se qui si tratti di “discussioni” o piuttosto di “citazioni”. E se fossimo in questo secondo campo, non mi stupirei affatto dell’uso spropositato di alcune etichette, che sono state trasformate in epiteti, e della simmetrica scarsità della ricorrenza di altre. Concordo sul fatto che spesso i termini fascismo e populismo – ma, in precedenza, anche comunismo – sono usati a sproposito (per dire: Orban e Kaczinski c’entrano più nulla che poco, da conservatori nazionalisti e sovranisti quali sono). ma da qui a (ri)dire, ancora una volta, che il populismo praticamente non esiste, ce ne corre. E si tratta di un errore, a cui il giornalismo concorre in misura massiccia.
Marco Valbruzzi dice
Purtroppo, per l’uso smodato che se ne è fatto e se ne sta facendo, personalmente sono giunto alla conclusione che gli svantaggi che derivano dall’uso indiscriminato dell’etichetta “populista” superano abbondantemente i vantaggi.
Ormai, il populismo è diventato una coperta che copre troppi partiti e troppi fenomeni, anche molto diversi tra loro. Il rischio che stiamo correndo è di non accorgerci più di cosa sta sotto la coperta, cioè quali sono gli interessi, i valori, gli ideali (persino le ideologie) che si muovono al di sotto della gelatina populista. E quando un concetto confonde le idee piuttosto che chiarirle, forse è arrivato il tempo di chiedersi se valga davvero le pena continuare ad utilizzarlo.