[Editoriale di «Paradoxa» 4/2024, “Il sistema politico italiano. Stato di salute”, a cura di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi]
L’operazione, in tre mosse, è audace. Muovere dal risultato dell’ultima competizione elettorale nazionale, attribuirgli la funzione di marcare una discontinuità significativa rispetto al pregresso e proporsi di valutarne l’impatto sul sistema politico italiano può sembrare sproporzionato, come il gesto di chi sbaglia ordine di grandezza e pretende di misurare in chilometri una distanza subatomica. A ben guardare, però, oltre che audace l’operazione è in un certo senso inevitabile, perché già di fatto imposta da un dibattito pubblico che non esita a definire storici, anzi epocali, eventi a stento trattenuti dalla memoria corta dei quotidiani, per non dire di quella cortissima dei social; un dibattito che, per esempio, ha accompagnato l’entrata in carica dell’attuale governo con allarmi, non sempre composti, sul rischio di un ritorno in forze del fascismo. Meglio, allora, accettare la sfida e provare sul serio, cioè con gli strumenti analitici giusti e con tutte le cautele del caso, a collocare su una scala più ampia la fase politica in corso, resistendo, per un verso, al riflesso condizionato di leggere tutto quel che (non) accade in Italia all’insegna del motto gattopardesco e tentando di cogliere, per altro verso, tra le tante microvariazioni contingenti qualche scricchiolio più strutturale. E in effetti – questa la tesi, forte e decisa, dei Curatori – qualcosa è cambiato: «l’esito delle elezioni del settembre 2022 chiude la transizione sfinita e apre una nuova fase che attende il suo nome di battesimo» (p. 12). Cosa sia cambiato, e come e quanto, emergerà dalle pagine che seguono. Ma è opportuno innanzitutto coinvolgere il lettore nella condivisione di alcune scelte di metodo che distinguono l’analisi qui proposta da prese di posizione pregiudiziali, avventate e militanti (del tutto legittime, queste ultime, sul piano del dibattito pubblico, ma di scarso interesse per una rivista che non è politica, ma di cultura e teoria politica).
La prima scelta è quella di avvalersi di categorie fondate e soprattutto trasparenti. Se ci si interroga, per esempio, sul «sistema politico» italiano, non lo si fa mettendo a tema un oggetto definito in modo generico e vago (‘la politica’), ma un concetto preciso, che presuppone un orientamento teorico preciso quale quello, appunto, sistemico: un concetto che viene esplicitato nell’introduzione e che articola il sistema politico nelle sue tre componenti essenziali – la comunità politica, il regime, le autorità – le cui rispettive evoluzioni sono poi variamente ricostruite da ciascun autore.
La seconda opzione metodologica consiste nel rifiuto esplicito degli atteggiamenti uguali e contrari dell’agiografia e della demonizzazione. Se ne può avere un’idea molto tangibile se, sfruttando una concomitanza fortuita, si mette a confronto lo sguardo (un po’ troppo) complice e nostalgico su Berlinguer che offre il film di Andrea Segre su La grande ambizione, in circolazione in questi giorni nelle sale cinematografiche, con quello asciutto di Pasquino che, senza alcuna pregiudiziale ostilità di parte, ragiona ad ampio spettro sulle ragioni strutturali del fallimento di una strategia politica. Sul versante opposto, è lo stesso criterio di sobrietà che guida la valutazione complessiva del governo Meloni e il modo di impostare l’assai vexata questione del ‘fascismo’, che riceve qui una varietà di risposte non tutte sovrapponibili, ma senz’altro convergenti nel riconoscere quanto meno la necessità di parecchi distinguo.
A questo proposito, la terza scelta di metodo, che appare come una rigorosa conseguenza delle prime due, è proprio quella di registrare ogni eventuale novità sempre ancorandola allo sfondo di persistenze strutturali che sarebbe ingenuo ignorare: certamente qualcosa è cambiato sul piano dell’atteggiamento nei confronti della dimensione internazionale, europea e non solo, il che però non cancella l’evidenza del fatto che nonostante tutto «l’Italia ha mantenuto un forte ancoraggio alla NATO e all’Unione Europea, riaffermando la sua adesione ai valori occidentali» (Diodato, p. 99). Allo stesso modo, l’innegabile proposito di una «svolta autoritaria» (Colarizi, p. 42) può essere adeguatamente valutato soltanto nel quadro della persistenza di un «paradigma di ordinaria amministrazione neoliberista» (Vagge, p. 65). E si potrebbe continuare.
Qualcosa è cambiato, dunque, ma forse è ancora troppo presto per dargli un nome: e forse, come si augurano i Curatori in conclusione, non è ancora troppo tardi perché la cultura politica torni a far sentire la sua voce e a proporre qualche buona idea.
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