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Quale reddito di cittadinanza

10 Novembre 2022 di Ida Regalia Lascia un commento

«Ci sono cose malfatte, che, per quanto malfatte, non si possono disfare»: era il commento lapidario che si leggeva nell’editoriale del Diario del Lavoro del 31 gennaio 2020 a proposito del Reddito di Cittadinanza (RdC), di cui, a un anno dall’introduzione, il PD intendeva chiedere una verifica in occasione di una più generale verifica di governo per correggerne limiti e criticità, ma su cui vi era una totale indisponibilità a qualsiasi ritocco da parte del M5S, che un po’ affrettatamente ne aveva fatto una bandiera del proprio programma. I limiti e le criticità che si osservavano allora sono sostanzialmente gli stessi che si ritrovano nella circostanziata relazione, presentata nel novembre 2021 – quindi a poco meno di due anni di distanza – dal Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza istituito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e diretto da Chiara Saraceno.

Nella relazione, il RdC viene definito strumento indispensabile, ma con alcune criticità. Ora, certamente si tratta di strumento indispensabile, anzi, tardivo: solo nel 2019 con il RdC l’Italia si allinea infatti agli altri paesi europei dotandosi di una misura condizionata di contrasto alla povertà assoluta a carattere strutturale (non sperimentale) e di importo dignitoso, con cui favorire insieme percorsi di reinserimento lavorativo e di inclusione sociale: strumento pertanto ambizioso e complesso. Ma molte sono le criticità. Nella relazione se ne elencano cinque: criticità relative ai criteri di accesso, alla misura del sostegno offerto, riguardanti la valutazione delle risorse e del patrimonio dei richiedenti, nell’attuazione dei percorsi di reinserimento nel mercato del lavoro, nell’implementazione dei patti per l’inclusione sociale.

Queste ultime due criticità sono in gran misura da ricondurre all’aver avviato l’erogazione monetaria prima di aver messo i servizi coinvolti nella condizione di poter effettivamente svolgere i nuovi compiti, così che solo in un numero limitato di casi l’elargizione del beneficio ha potuto poi essere associata alla sottoscrizione dei patti per il lavoro o per l’inclusione sociale. Sono gli aspetti su cui si è maggiormente sviluppata con toni scandalistici l’indignazione dei media e dell’opinione pubblica. In realtà, più gravi, anche se meno immediatamente evidenti, sono gli altri, che riguardano l’individuazione dei destinatari e la logica attuativa di tale erogazione monetaria.

Per come sono definiti i requisiti di accesso, risultano infatti fortemente svantaggiate le famiglie numerose e con minorenni rispetto ai single, vengono penalizzati i poveri residenti al nord, e risulta esclusa la gran parte degli stranieri (cui si richiedono dieci anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due in modo continuativo). L’esito è che, com’è stato poi più volte mostrato, la misura raggiunge solo la metà circa dei poveri assoluti, escludendo famiglie sicuramente povere e rendendo eleggibili soggetti non poveri (specie famiglie di piccola dimensione in aree a basso costo della vita). Tra chi è ammesso alla misura sono poi notevoli le difformità del sostegno, la cui entità paradossalmente risulta inversamente proporzionale all’ampiezza della famiglia e alla presenza di minori, e legata a valutazioni eccessivamente rigide e inique delle risorse disponibili.

Ma anche le difficoltà in termini di attuazione dei percorsi di reinserimento nel mercato del lavoro e dei patti per l’inclusione sociale, dipendono – si legge nella relazione – non solo dagli storici ritardi nella predisposizione dei servizi di politiche attive del lavoro e dalle carenze di organico e disomogeneità di funzionamento dei servizi locali che dovrebbero promuovere i progetti utili alla collettività (PUC), ma anche da una serie di criticità legate al disegno stesso del RdC: criticità «che da un lato creano circoli viziosi ai beneficiari e ingorghi ai servizi, dall’altro di fatto disincentivano dal cercare, accettare o offrire un lavoro». La relazione presenta pertanto infine un programma di ritocchi e correttivi per riformare lo strumento correggendone inefficienze e distorsioni, di cui, come sanno gli addetti ai lavori, non si è però mai tenuto conto: il recente DL Aiuti del governo Draghi si è anzi mosso in direzione largamente opposta.

In effetti, quello del RdC è argomento socialmente e politicamente sensibile e divisivo, su cui ci si è sempre finora schierati aprioristicamente, o comunque genericamente, a favore o contro, senza reali intenzioni – se si eccettua l’attenzione della società civile organizzata, dall’Alleanza contro la povertà alla Caritas – di entrare nel merito di una vera riforma; e su cui oggi intende invece programmaticamente intervenire il governo Meloni, che parla di revocare tout court la misura a chi può lavorare. Ma che bilancio se ne può infine fare?

In termini di contrasto alla povertà gli effetti sono stati molto positivi, benché limitati. In base ai dati Istat, in un paese in cui nel 2020 durante la pandemia la povertà assoluta ha toccato la cifra record di oltre cinque milioni e mezzo di persone (il 9.4 percento della popolazione residente), rimanendo poi stabile nel 2021 nonostante il rimbalzo dell’economia, ci sono un milione di poveri in meno grazie al RdC, e più in generale lo strumento ha avuto effetti di protezione per chi non ha reddito. Tuttavia non ne ha usufruito oltre la metà dei poveri assoluti, come già ricordato: perché esclusi per disegno (famiglie numerose con minorenni e gran parte degli stranieri) o perché non in grado di richiederlo o se ne vergognano.

I risultati modesti poi in termini di reinserimento lavorativo e inclusione sociale sono da ricondurre, come evidenziato dal XXI rapporto annuale dell’Inps e da diverse analisi di economisti, sia alla scarsissima offerta di attività di inclusione e di politiche attive del lavoro specie dove sarebbero più necessarie, sia alla problematica occupabilità della maggior parte dei percettori in età da lavoro (disabili, a bassa istruzione, senza o con bassissime qualifiche professionali, mai entrati o da lungo tempo lontani dal mercato del lavoro), nonché a caratteristiche di disegno dello strumento che penalizza con un’aliquota marginale altissima il cumulo con lavori regolari temporanei – a part-time, a tempo determinato, stagionali – quali sono la maggior parte dei contratti offerti sul mercato del lavoro.

Va peraltro sfatata la narrazione dominante dei percettori del reddito come semplicemente sdraiati sul divano, nullafacenti: tra gli occupabili, molti sono lavoratori poveri che non hanno trovato un lavoro che dia un reddito sufficiente per vivere e uscire dalla povertà. Del resto, è significativo che, con il rimbalzo dell’economia soprattutto al nord, nel 2021 diminuisca appunto al nord il numero dei percettori. Né è il RdC a spiegare la maggior difficoltà di molte aziende (in settori quali il turismo o la ristorazione) a trovare il personale richiesto: dopo il periodo del lockdown in un periodo di aumento della domanda è piuttosto la bassa qualità delle condizioni d’impiego a spingere molti a indirizzarsi altrove, come suggerito da studi longitudinali sui percorsi lavorativi.

La misura andrebbe dunque modificata e rafforzata, non ristretta, in modo da poter coprire tutti i poveri, in particolare i minori, rendendo insieme effettivamente praticabile la ricerca di un lavoro che permetta di uscire dalla povertà. Benché il momento non appaia particolarmente propizio, ci sembra si dovrebbe seriamente riflettere sulle osservazioni di chi ha messo in luce [Michele Grillo 2021] che l’attuazione di un reale reddito di cittadinanza, o «reddito di base», implicherebbe «un approccio radicalmente diverso al problema dell’opportunismo nelle relazioni sociali», un approccio diverso da come si contrasta l’opportunismo nelle relazioni contrattuali tra privati. Il moral hazard nel nostro caso andrebbe contrastato attraverso incentivi «in grado di far leva, invece che sulla sfiducia e sul sospetto tra Stato e cittadini, su una logica di appartenenza sociale».

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