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Quando e quanto è eversivo il populismo?

4 Dicembre 2017 di Marco Valbruzzi 5 commenti

Qualche giorno fa Ernesto Galli Della Loggia si è domandato se «il Movimento 5 Stelle è un partito eversivo». L’interrogativo non mi pare dei migliori, e anzi rischia di produrre più confusione rispetto a quella che già circola ad abundantiam in materia. Ma quello che mi interessa qui non è tanto la domanda quanto la risposta. Per l’autorevole editorialista del Corriere, «un partito può essere qualificato come eversivo quando non si riconosce nei valori e nelle regole della Costituzione della Repubblica» e – aggiunge – quando è disposto ad usare la violenza per sub-vertere, cioè rovesciare, il potere e le istituzioni così come sono state costituite. Gli eversivi sarebbero così dei sovversivi a volto scoperto con lo scopo di abbattere con metodi illegali le istituzioni statali per sostituirle con altre di loro (degli eversivi, s’intende) gradimento.
Se così è, il partito di Grillo – conclude Galli Della Loggia – non si qualifica come partito eversivo. Al massimo, ci troviamo di fronte a un partito tutto critica (anche violenta, ma solo a parole) e distintivo. Ma le cose stanno davvero così? Direi più no che sì. Prima di tutto, perché non serve la violenza per essere (definiti) eversivi. Le nostre regole e i valori costituzionali, e cioè quell’insieme di principi che ispirano le liberaldemocrazie, possono essere sovvertite anche senza strappi e senza operazioni violente, cioè operando all’interno delle istituzioni. Il che pone ai teorici della democrazia una questione da sempre lancinante: fino a che punto un regime democratico può tollerare la propria distruzione e i propri distruttori?
Un esempio classico per il M5S è rappresentato dalla sua ostinata e inopinata posizione sul mandato imperativo, il cui divieto resta uno dei pilastri della democrazia liberale e rappresentativa. Se davvero i Cinquestelle dovessero proseguire sulla strada indicata da uno dei suoi principali co-fondatori (Gianroberto Casaleggio), il quale sosteneva pubblicamente la necessità della «introduzione del mandato imperativo», allora il M5S si trasformerebbe immediatamente in un partito eversivo, non solo a parole ma nei fatti. Questo esempio ci serve anche a ricordare che esiste una differenza – per così dire – tra l’eversione in potenza e quella in atto, realmente praticata e conseguita. Ed è su questo diaframma che si innesca la retorica e il successo dei partiti populisti. Finché restano esclusi dal potere di governo, ottenendo solo qualche porzione minoritaria di rappresentanza, nulla quaestio. O, meglio, la questione si pone, ma fino ad un certo punto può essere tollerata come l’espressione e l’emersione di un malessere che accompagna come un’ombra le nostre democrazie sotto stress. Però, quando dalla retorica si passa alla pratica, e cioè quando i partiti populisti traducono in atti concreti i loro ideali, il problema non può essere nascosto sotto il tappetto.
Allora per riprendere il quesito iniziale di Galli Della Loggia, direi che: 1) il M5S è un partito populista e che 2) in quanto tale, possiede una carica potenzialmente eversiva. Se il problema lo affrontiamo in questi termini e in questo ordine, il nodo non sta tanto nel carattere eversivo dei grillini ma nel loro tratto populista. Anche su questo però bisognerebbe intendersi, perché ormai tutti parlano sempre più a sproposito di populismo. Qui ci basta ricordare che i populisti sono, per loro intrinseca natura, anti-pluralisti e anti-elitisti. Non accettano la presenza di altri gruppi al di fuori del loro ‘popolo’ idealizzato, purificato e immaginato e, in aggiunta, non contemplano l’esistenza di élite (politiche, economiche, culturali, intellettuali ecc.). Se, per dirla con Rousseau, «la sovranità popolare non può essere rappresentata per la medesima ragione per cui non può essere alienata», l’idea stessa di élite per un populista a diciotto carati va totalmente rigettata oppure neutralizzata sotto formule vuote e dannose come ‘portavoce dei cittadini’ o ‘megafono della gente’.

Fig. 1. Percentuale di voti ai partiti populisti in 14 democrazie europee (valore medio per ogni periodo)

Sulla spinta di questa retorica e, in parte, anche per effetto della recente crisi economica, i partiti populisti sono spuntati o cresciuti un po’ dappertutto, dentro e fuori l’Unione Europea. Come mostra la figura 1, nel periodo che va dall’ultimo decennio del secolo scorso fino agli ultimi anni caratterizzati dalla Grande Recessione, il consenso per i partiti espressione del populismo è sostanzialmente triplicato, con rarissime eccezioni in controtendenza (Austria e Belgio, ad esempio). È un dato che ci dovrebbe certamente allarmare, anche se ha ancora un carattere piuttosto contenuto, che in media non supera il 18-20% dei voti. In molti casi si tratta di un populismo di rappresentanza, che non ha (ancora?) scavallato la barriera del potere esecutivo. Ma esistono anche esempi di partiti e leader populisti che non solo sono andati al governo, ma che lo hanno fatto da una posizione dominante, in grado di dettare l’agenda della politica. Mi limito a due soli esempi, distanti e proprio per questi significativi. Da un lato, c’è il populismo ‘di sinistra’, anti-capitalista e no-globalista del premier greco Tsipras col suo partito Syriza; dall’altro troviamo il populismo ‘di destra’ del Primo Ministro ungherese Viktor Orbán, fortemente nazionalista e anti-europeista. Entrambi sono casi di populisti governanti che hanno avuto un impatto completamente diverso all’interno dei loro sistemi politici. Tsipras ha progressivamente spento la sua carica populista e, di conseguenza, anche il suo potenziale eversivo. Orbán, al contrario, ha soffiato a pieni polmoni sul suo populismo, facendolo diventare il veicolo attraverso il quale diffondere il suo progetto eversivo di costruzione di una ‘democrazia illiberale’: un neologismo (l’illiberaldemocrazia) che nella neolingua del premier ungherese sta a indicare la necessità di procedere alla costruzione di un regime che, a parole, santifica il popolo, ma che nella pratica non lo protegge dalle intromissioni e dalle vessazioni dello Stato.
Quindi, come abbiamo visto, il rischio eversivo del populismo c’è, esiste, ma non sempre diventa realtà. Nel caso italiano, soprattutto per il M5S, si tratta di un pericolo potenziale, che potrebbe (come no) tradursi in prassi. Molto dipenderà, oltre che dalla saggezza (if any) degli attuali leader del non-partito, anche dalle strategie e dai comportamenti degli altri attori partitici, che dovranno valutare quali modalità di collaborazione mettere in pratica per neutralizzare i proclami dei Cinquestelle oppure per smussarne gli angoli più problematici al fine di una convivenza pacifica e democratica.
Ad ogni modo, prima di disquisire sul pericolo eversivo del M5S o di altri partiti, è doveroso approfondire il tema oggi di moda, e proprio per questo abbondantemente frainteso, del populismo. Ecco perché il forum di Paradoxa ha deciso di dedicare un focus speciale proprio sui populismi contemporanei, sia quelli reali che quelli immaginari. Un viaggio al cuore del populismo – dagli Stati Uniti di Trump ai paesi dell’Europa centro-orientale – che si rivelerà, inevitabilmente e auspicabilmente, un’analisi sullo stato di salute delle nostre democrazie.

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Commenti

  1. Dino Cofrancesco dice

    5 Dicembre 2017 alle 15:57

    Bravisismo Valbruzzi! Il punto è proprio questo! E mi associo all’invito rivolto a Paradoxa.

    Rispondi
  2. Luigi Capezzuoli dice

    5 Dicembre 2017 alle 13:48

    Non so se è possibile, ma vorrei porre all’autore una domanda seria e non provocatoria: in base ai ragionamenti esposti, l’azione della sinistra comunista nella storia italiana può essere considerata eversiva?

    Rispondi
    • Marco Valbruzzi dice

      5 Dicembre 2017 alle 16:21

      Domanda molto seria e giustamente provocatoria (thought-provoking). Me la potrei cavare tirando in ballo la celebre “ambiguità” prima togliattiana e poi interamente comunista. Il PCI pensava in modo eversivo (e da qui deriva la sua natura anti-sistema e l’opposizione alla democrazia “borghese-occidentale”), ma agiva in maniera legale e democratica. Aspirava ad “attuare la Costituzione” nella quale in fin dei conti si riconosceva e che aveva contribuito non poco a redigere. Certamente, restava sempre sullo sfondo il minaccioso spauracchio della “democrazia popolare”, ma nel frattempo e con molte contraddizioni (che poi lo travolsero) il PCI contribuiva a scrivere un pezzo della nostra storia costituzionale.
      Per ora, anche il M5S ha giocato sulla sua ambiguità costitutiva (e costituzionale), ma saranno solo il tempo e le azioni che seguiranno a portare la chiarezza necessaria.

      Rispondi
  3. Dino Cofrancesco dice

    5 Dicembre 2017 alle 8:39

    Ottimo l’articolo di Valbruzzi: sobrio, chiaro, acuto. Mi si consenta, però, qualche postilla.

    Non si può sottovalutare il fatto che i pentastellati sono eversivi all’italiana: per citare Indo Montanelli, fanno la rivoluzione non con il consenso dell’Arma dei carabinieri ma con quello di spezzoni importanti e pericolosissimi della magistratura giustizialista.
    La stella polare di un liberale non taroccato non è la Costituzione italiana ma la grande tradizione di Locke, di Montesquieu, di Luigi Einaudi che la libertà fonda su tre colonne: libertà, vita, proprietà. Un patriottismo costituzionale che prenda alla lettera il secondo comma dell’art. 42 « La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», lasciando nel vago il significato di ‘funzione sociale’, può essere tanto eversivo quanto la critica rousseauiana della rappresentanza che giustamente Valbruzzi stigmatizza nella filosofia casaleggiesca del M5S
    Anch’io diffido di Orban e dei populismi, però dobbiamo metterci d’accordo su un punto fondamentale: certe questioni—come ad es. l’allargamento della comunità politica ai ‘nuovi venuti’—possono venir poste legittimamente nell’agenda politica di Governi e Parlamenti o ne vanno escluse per non ledere diritti universali dell’uomo e del cittadino, che, in quanto tali, vanno sottratti alla conta delle teste?
    Per la verità, trovo non poco inquietante l’imperialismo del Diritto che sta restringendo progressivamente l’area del Politico ma temo che si tratti di un trend tanto inevitabile quanto foriero di tempeste civili, destinate a cancellare quel poco di ‘mondo della sicurezza’ che in Europa era sopravvissuto ai totalitarismi nero e rosso.

    Rispondi
    • Marco Valbruzzi dice

      5 Dicembre 2017 alle 15:10

      In cauda veritas: è nella scomparsa/debolezza del Politico (come categoria, non certo come soggetto…), a causa di un Diritto tecno-burocratico imperialista e – aggiungo – di una Economia “sconfinata”, che si annidano i germi potenzialmente eversivi del populismo. Più si allarga l’agenda del politicamente corretto, sterilizzando lo spazio del dibattito pubblico, più si affinano le armi e gli strumenti in mano ai populisti.
      Ecco perché sarebbe interessante, anche per una rivista di riflessione filosofica come Paradoxa, tornare a riflettere sui nuovi confini e sulle nuove caratteristiche del Politico nelle società contemporanee.

      Rispondi

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