In questo articolo mi voglio concentrare sulle principali carenze che si sono manifestate nel corso dell’emergenza prodotta dalla pandemia del Covid-19. Con una premessa, però. Queste sono riflessioni comode, fatte in pantofole, da chi si può permettere oggi, in questa situazione eccezionale, di pensare a cause e conseguenze dell’emergenza sanitaria standosene – non proprio allegramente, ma fermamente – sul divano. Riflettendo magari su come sarà il mondo di domani, quando la pandemia sarà passata e dovremo iniziare a immaginare nuove basi per la ricostruzione.
È chiaro che in una situazione come questa – totalmente emergenziale – ogni piano, ogni visione strategica deve fare i conti con notizie parziali, dati manchevoli, pareri difformi e decisioni rapide (e perciò difettose). Pretendere in questo momento una razionalità assoluta e perfetta dai nostri decisori, già palesemente carente in una situazione ordinaria, significa non aver compreso fino in fondo la situazione nella quale ci troviamo.
Quindi, va benissimo parlare di deficit e carenze rispetto a quello che, legittimamente, avremmo potuto aspettarci, ma sempre tenendo fermo il quadro di fondo, all’interno del quale alcuni di noi si trovano a filosofare e altri ad agire e decidere.
Fatta questa premessa, che non è soltanto di metodo, vengo immediatamente ai deficit che – mi pare – questa emergenza sanitaria ha squadernato impietosi davanti a noi. Ne ho individuati quattro e li presento senza un ordine particolare, così come mi sono saltati alla mente.
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Deficit di comunicazione. In questi giorni di dilatata routine, lo svago migliore è la lettura (e, per chi ne ha voglia, possibilmente dopo un’abbondante dose di lettura, la scrittura. Consiglio vivamente di mantenere quest’ordine cronologico). C’è chi ha riscoperto i grandi classici a tema (dai romanzi distopici agli evergreen come Boccaccio, Manzoni o Camus) e chi si è concesso scorribande nel grande mare della filosofia consolatrice. Gli stessi filosofi non hanno fatto mancare il loro contributo, dedicandosi spesso a riscaldare la minestra dello ‘stato di eccezione’ già cucinata da Carl Schmitt, dimenticando forse che la parte più originale e attuale nelle riflessioni del pensatore tedesco non stava tanto nel carattere ‘eccezionale’ della sovranità, bensì sul rischio di neutralizzazione della politica derivante da uno strapotere/strabordare della tecnica. È bene tenerlo a mente in questi giorni in cui la politica sembra avere abdicato al proprio ruolo – quello della decisione ultimativa – lasciandosi accecare dalla potenza della tecnica. È ovvio che gli esperti e gli scienziati in questa fase sono – l’aggettivo che segue non è involontario – vitali, ma alla politica spetta il compito di valutare quali ipotesi sono più attendibili e quali scenari più realistici. Mai come in questa occasione ci siamo accorti che la scienza non è un monolite compatto dove risiede un pensiero unico. Al contrario, è un condominio di voci discordanti dove l’argomento migliore, sorretto da un solito metodo scientifico, prevale popperianamente fino a prova contraria. È qui, all’interno di questa ordinata cacofonia, che la politica ha il compito, persino il dovere, di scegliere, dopo aver ascoltato i migliori esperti sul tema. Ed è proprio qui che nasce il deficit di comunicazione del nostro governo, paradossalmente altalenante tra dieta e bulimia mediatica.
Quello che conta – va detto ai presunti esperti di comunicazione attivissimi a Palazzo Chigi – non è quanto tempo passa il premier in tv o sui social (e neppure quanti like si guadagnano ad ogni tele-diretta). Ci si può andare poco ed essere efficacissimi oppure tanto per poi risultare fumosi. O, com’è successo sabato sera a Giuseppe Conte, si può essere contemporaneamente brevissimi e confusissimi. Confusi non tanto nell’esposizione (la retorica giuridica del premier non fa mai una grinza), ma nella spiegazione delle decisioni prese e delle loro implicazioni. Ai sabato sera degli italiani non servono discorsi motivazionali (#celafaremo. #andràtuttobene, #volemosebene): quelli lasciamoli alle tastiere dei social che, giustamente, devono passare la giornata – e anche ‘a nuttata. In questa fase di eccezionalità, il patto tra governanti e governati deve essere cristallino: i cittadini accettano responsabilmente limitazioni dei loro spazi di libertà per superiori ragioni di sicurezza a patto che chi prende decisioni lo faccia con competenza e assoluta trasparenza. Il gioco funziona se, man mano che aumenta l’emergenza, cresce anche la trasparenza con cui i governanti illustrano le loro decisioni, correggono le loro previsioni e rendono partecipi i cittadini di ciò che sta funzionando e cosa no. Se questa catena di montaggio del consenso politico si spezza, allora sono guai seri.
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Deficit di opposizione. Una conseguenza dell’emergenza prodotta dalla pandemia è l’accentramento abnorme di compiti e prerogative verso la Presidenza del Consiglio, costretta più o meno obtorto collo a sfornare ‘DPCM’ (Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri) che, sull’onda della necessità, scavalcano ogni controllo parlamentare. Anche questo è comprensibile, sempre e soltanto nella logica temporanea della situazione eccezionale nella quale ci troviamo. Ma da qui a farla diventare una prassi o una regolarità il passo può essere brevissimo, ed è un passo che una democrazia non può permettersi.
Chi dovrebbe vigilare in maniera spasmodica su questo fronte? Certo, è giusto che i cittadini facciano la loro parte, così come i giornalisti, ai quali andrebbero chieste meno opinioni sul futuro e più descrizioni fedeli del presente. Però, la responsabilità maggiore resta in capo ai partiti di opposizione. Sono loro, in questa fase, che devono fare i cani da guardia nei confronti del governo e richiamare tutte le istituzioni al rispetto, almeno formale, della sovranità parlamentare. Purtroppo, qui la carenza è palese. L’opposizione a tutto sembra essere interessata, tranne che alla salvaguardia delle prerogative del Parlamento. In questo quadro, anche l’intera narrazione sul ‘governo di unità nazionale’ è totalmente mal posta. Non serve a nessuno un governissimo di salute pubblica con la retorica un po’ pelosa dell’embrassons nous. Serve che ognuno faccia responsabilmente la propria parte, chi dalla maggioranza e chi dall’opposizione, a favore dell’unità nazionale.
Per inciso, fare responsabilmente la propria parte vuol dire anche, per l’opposizione, non limitarsi ad aumentare la posta in gioco («il governo propone misure da 25 miliardi, noi le proponiamo da 30»), ma cercare di proporre emendamenti alternativi credibili e sostenibili, che la maggioranza a quel punto ha il dovere di prendere in considerazione. Ahinoi, non rientrano in questa categoria le proposte che sono tornate alla ribalta nel centrodestra, a partire dalla flat tax. Una proposta di questo tipo, se adottata seriamente, già sarebbe irresponsabile (oltre che incostituzionale) in tempi ordinari, ma riproporla ora significa non aver capito la gravità della situazione e la difficoltà della ripartenza.
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Deficit di ordine politico internazionale. Probabilmente, aveva ragione Tony Judt a ricordarci, poco prima della sua scomparsa, che «guasto è il mondo». Anzi, ora possiamo togliere ogni elemento condizionale. C’è effettivamente qualcosa di guasto nel modo in cui la globalizzazione si è concretizzata. Lo avremmo già dovuto notare dopo l’esplosione della Grande Recessione e, invece, con qualche toppa mal assortita, abbiamo fatto finto di nulla. Ora ci siamo di nuovo e il problema si ripropone. Ma abbiamo capito dove sta il problema? Temo di no o almeno non fino in fondo.
Il difetto – come si usa dire – sta nel manico. O, meglio, nell’assenza del manico che avrebbe dovuto regolare o dare forma politica a processi globali. Ci sono temi – a cominciare da quelli climatici, finanziari, migratori, di sicurezza e di salute degli individui – che richiedono nuove sedi e procedure per essere governate. Lasciarli nelle mani dei singoli Stati nazionali vuol dire non capire la natura del problema. Ma lasciarli nelle mani di una globalizzazione senza confini (politici, giuridici, etici) vuol dire aggravare il problema. L’unica via d’uscita sta nel riscrivere le regole di un ordine internazionale che si faccia carico di questi temi. Il che è facilissimo a dirsi, ma difficilissimo a farsi, soprattutto se si vuole evitare che il nuovo ordine nasca per imposizioni egemoniche.
Del nuovo (dis)ordine globale fa parte, ovviamente, anche la discussione sull’Unione Europea, la cui carenza (o deficit) in questa occasione è stata ed è ancora sotto gli occhi di tutti. Se vorrà avere una voce o uno spazio nella definizione del futuro ordine internazionale, è arrivato il momento di dimostrarlo, senza più alibi e senza più miopi astuzie intergovernative. Quando la storia, come in questo caso, facit saltus, bisogna farsi trovare pronti al balzo. Cara Europa, hic Rhodus.
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Deficit digitale. La pandemia del Covid-19 non è la prima che il mondo abbia conosciuto e, purtroppo, non sarà neppure l’ultima. È la prima, però, che esplode nel pieno della (formazione della) società digitale, dove le nostre informazioni e comunicazioni circolano, si incontrano e scontrano in rete. È questa particolare circostanza che ha permesso al virus di diventare virale anche sul web, di trasformare una pandemia offline in una infodemia online. E già questo pone il problema enorme di come controllare il flusso di informazioni che vagano libere via social e come distinguere il grano delle notizie attendibili da loglio delle fake più o meno costruite ad arte. Questo è un problema noto da tempo che tutte le società digitali contemporanee si trovano ad affrontare. C’è, però, qualcosa di più specifico che questa emergenza ha reso palese nel contesto italiano e segnala, di nuovo, due carenze con le quali l’Italia si trova oggi a fare i conti.
La prima riguarda i dati e, in particolare, l’incuria con cui le informazioni digitalizzate vengono messe a disposizione dell’opinione pubblica. Chiunque segua con un po’ di attenzione il bollettino quotidiano della Protezione civile, si è reso conto che molte delle informazioni disponibili sono lacunose, sconnesse tra loro, di difficile comparabilità tra diverse regioni e diversi periodi, in alcuni casi persino errate. Fortunatamente, anche se in ritardo, i dati sono stati resi open, a disposizione di chiunque intenda indagare la diffusione geografica o temporale del virus, ma le imperfezioni restano. In una realtà come quella italiana dove una cultura empirica non è mai riuscita realmente a radicarsi, non stupisce che la gestione dei dati sia così lacunosa e difettosa. Però, se questo era un peccato veniale nella società pre-digitale, nell’attuale società dei dati l’incapacità nella raccolta e nell’analisi dei dati diventa un peccato capitale, che impedisce di cogliere la realtà di un fenomeno in tutte le sue mutazioni (e, eventualmente, di limitarne i danni).
Lo stesso ritardo nella cultura digitale in Italia lo abbiamo riscontrato nel settore dell’istruzione. A parte qualche lodevole ma sporadica eccezione, la scuola e le università italiane si sono trovate del tutto impreparate a gestire l’emergenza e a trasferirsi rapidamente online. Come un appuntamento rimandato per troppo tempo, l’incontro tra istruzione e digitalizzazione è arrivato alla fine in modo imprevisto, portandosi dietro tutti gli arretrati rimasti per anni in sospeso. In queste settimane, sempre sull’onda dell’emergenza, i docenti di ogni ordine e grado hanno fatto capriole tecnologiche per permettere agli studenti (anch’essi fortemente in deficit digitale rispetto ai loro colleghi europei) di non sprecare l’anno accademico, ma le asimmetrie, le incapacità e i ritardi sono ancora sotto gli occhi di tutti e non facilmente risolvibili. Insomma, di fronte alla prova del fuoco, il mondo dell’istruzione e, più in generale, l’intero settore pubblico italiano si sono fatti trovare impreparati all’incontro con la rivoluzione digitale. La speranza è che tutto il terreno perso in questi anni a parlare di digitale tenendolo a distanza di sicurezza sia stato colmato in condizioni di necessità e, quando l’emergenza sarà finita, si possa tornare a discuterne su basi nuove e più solide.
Mi fermo qui, anche se l’elenco delle carenze italiane nella gestione del Coronavirus potrebbe continuare a lungo. Per carità di patria, ho evitato di discutere del deficit di senso civico che abbiamo osservato increduli nelle ultime settimane. Tra parchi pullulanti di studenti orfani della scuola, piste ciclabili traboccanti di para-atleti, spiagge affollate di pallidi bagnanti, piste da sci brulicanti di aspiranti Alberto Tomba, metro e stazioni strapiene di pendolari girovaganti, l’Italia e gli italiani hanno dato pessima prova di sé.
Verrà il tempo per discutere anche di questo, ma per il momento accontentiamoci che ognuno faccia (bene) il proprio dovere. Di questi tempi, sarebbe già un successo.
Vittorio Midoro dice
In questa fase sarebbe stato necessario un intervento di educazione di massa, non affidato a giornalisti, scienziati o pubblicitari, ma a chi queste cose le sa fare, basta individuare persone che sappiano come sviluppare (progettare, realizzare e gestire) un progetto di educazione di massa. Al CNR l’avevamo fatto per l’educazione sismica e con il Ministero dell’Ambiente. Perché non pensarci anche per questa emergenza?
Marco Tarchi dice
Concordo pienamente. Purtroppo. Ma certe non-scelte sono anche frutto di uno spirito del tempo per cui, per usare le parole di un articolo comparso in prima pagina sul Corriere della Sera di ieri, “il bene più prezioso è un po’ di vita in più”. Conta la quantità, non la qualità. E quindi si può pensare che una vita da reclusi (tutti) ad oltranza valga sempre e comunque più del rischio (di taluni) di perderla. In una società individualistica, il senso del collettivo è perduto, al di là della retorica.