«Le macchine non possono essere intelligenti, perché schiave degli ingegneri o delle élite politiche che li controllano». La citazione è di Pablo López López, docente di filosofia a Valladolid, dal recente congresso di filosofia a Roma.
La dichiarazione si fonda su un desiderata di consuetudine così comune da apparire perfino superfluo a una lettura veloce, una sorta di assioma con cui gran parte di coloro che leggono si troveranno in perfetto accordo. Rivendicare la superiorità dell’uomo rispetto alla macchina restituisce il senso del primato come un fato inappellabile a garanzia morale suprema, rassicurando sulla sua illusoria intangibilità presente e futura.
Non posso dire di essere in disaccordo, significherebbe riconoscere la condivisione di piani del ragionamento che permettono un dialogo. Per me è più come una lingua dimenticata che stenta a puntellare un sillogismo gravato di semplificazioni estreme, ideologico e rigido, le cui categorie definiscono i compartimenti stagni di un veterosocialismo postindustriale riesumato per l’occasione.
Si adatterebbe bene a qualche moratoria sommaria dei tanti comitati etici che proliferano più delle stesse intelligenze artificiali, la cui tenera militanza assertiva tenta di riscattare un ruolo che nelle forme attuali è sorpassato ampiamente dalla costante e incontrollabile rimodulazione dei fatti, dei termini e delle questioni digitali.
Le élite politiche e gli ingegneri contribuiscono indubbiamente a orientare il progresso tecnologico, ma l’evidenza è ben lungi dal determinare una schiavitù di qualche tipo da parte del bit-related, come è successo per millenni con gli esseri umani. Al più si tratta di avidità mercatista, sempre pronta a cogliere le occasioni del progresso che il mondo non manca di offrire. Ma finisce lì. Se vi è un funzionalismo opportunista cui si accede attraverso il digitale non è in mano ad alcuno in esclusiva, colossi informatici inclusi.
Non è cambiato solo il gioco, è stato ridisegnato il tavolo su cui si gioca, del tutto inedito, per certi versi inesplorabile, e questo fa sì che puntare secondo le vecchie regole della logica risulti fuori luogo e inefficace. Non vi è scorciatoia, se non siamo capaci di ripensare le basi fondanti di realtà e filosofia per come sono state concepite finora rimarremo in una bolla temporale destinata alla obsolescenza programmata come certi elettrodomestici. Ma questo non è un discorso sociologico, né intende esserlo. Vado al punto e rilancio alla mia maniera.
Se le macchine non possono essere intelligenti non è a causa della dipendenza dagli esseri umani che le concepiscono. Sappiamo tutti che gli ingegneri progettano le architetture del codice ma in termini di prospettiva teoretica e pratica già ampiamente frequentata questa forma di legame quasi parentale è un passato che non tornerà in quella forma, applicabile ancora per qualche tempo, forse, ai presidi di domotica, o della catena di montaggio.
La progettazione delle intelligenze artificiali è proiettata verso sistemi in grado di autoalimentarsi, di autogenerarsi, e, complici gli errori inevitabili che la replicazione del DNA in versione bit porterà con sé, condurrà certamente alla evoluzione di organismi nuovi e imprevedibili, in qualche modo indipendenti, la cui sopravvivenza sarà determinata da una rispondenza darwiniana alle leggi di natura… digitali. Indipendente, però, non significa intelligente esattamente come produrre codice non significa controllo permanente.
La categoria intelligenza nel suo nucleo non dipende dai gangli che la rendono operativa. Questo perché, contrariamente a quanto si crede, intelligenza, artificiale o meno, non è semplicemente un insieme di abilità implementate in questo o quel contesto, ma l’humus sintattico su cui queste attecchiscono, precondizione svincolata da chiunque sia chiamato a riorganizzarne il dettaglio. Il dettaglio, oggetto soggetto della ‘schiavitù’ di Lopez, un mero applicativo, non il core di una sconcertante autonomia a priori.
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