Il dibattito sul Referendum confermativo del prossimo 20/21 settembre non è di per sé particolarmente appassionante. Il numero dei parlamentari o il rapporto tra tale numero e quello degli abitanti o elettori (si può andare da uno a quasi due milioni dell’India a uno a poche decine di migliaia di diverse democrazie europee) non è determinante ai fini della qualità della democrazia: esso riflette soltanto la presenza di un particolare modello di democrazia rappresentativa. Per questo, esso deve essere coerente con come è organizzato il parlamento e con il posto che esso occupa nel sistema politico.
Ne consegue che il numero di parlamentari si può tranquillamente cambiare. Bisogna però spiegare bene il perché di tale scelta. Occorre dimostrare che il cambiamento è coerente con il modello di democrazia esistente e produrrà un miglioramento della sua qualità. Inoltre, bisogna anche ben valutare quali possano essere le conseguenze, non solo negative, ma anche semplicemente operative, della modifica.
Il nostro parlamento funziona da 72 anni con questi numeri o con numeri molto simili e cambiarli ha necessariamente delle conseguenze. Vanno previste e affrontate insieme alle modifiche proposte. Nessuno degli argomenti dei sostenitori della riforma dimostra che la riduzione produrrà un miglioramento della qualità della democrazia o un efficientamento della operatività del parlamento.
L’argomento espresso in positivo più frequentemente è la riduzione dei costi della politica, quantificati in circa 57 milioni di euro annui (e al massimo in 100 dai sostenitori più entusiasti). La modestia del risparmio (1 o 2 euro l’anno per elettore) si potrebbe anche ignorare se la riforma migliorasse la democrazia (la cui qualità non ha ovviamente prezzo). Purtroppo, prova di questo manca completamente nel dibattito.
L’altro argomento è che l’Italia ha il numero di parlamentari eletti più alto d’Europa. L’argomento è di per sé abbastanza debole se non si spiega perché un numero alto è necessariamente negativo. Anzi, il fatto che la nuova legge modifichi solo il numero dei parlamentari ma non i loro compiti genera l’equivoco fondamentale alla base del dibattito. L’inefficienza (e il costo) del nostro parlamento è dovuto, più che all’alto numero di parlamentari, al bicameralismo paritario del parlamento. I 945 parlamentari eletti non svolgono il loro lavoro congiuntamente in un’unica camera ma lo duplicano in due camere separate.
Ne consegue che non ha senso dire che il Parlamento italiano ha il più alto numero di eletti d’Europa. Al contrario, la nostra Camera con 630 deputati si piazza per numero di componenti al terzo posto tra i 4 paesi più grandi dell’Unione Europea pre-Brexit, dopo Germania (attualmente 709,) e Regno Unito (650). Con il taglio a 400 deputati, la Camera scenderebbe al quinto posto per numeri assoluti, dietro anche a Francia (577) e Polonia (460) e acquisterebbe il rapporto deputati/cittadini di gran lunga più elevato (1:151000) con uno scarto rispetto alla Germania (che sarebbe seconda con 1:120000) simile, ma in senso opposto, a quello adesso giudicato inaccettabile dai sostenitori del Sì (attualmente la Camera ha un rapporto di 1:96000).
Da un lato, questi numeri indicano che il numero dei parlamentari può essere tranquillamente ridotto (o aumentato) se il contesto sistemico lo consiglia o almeno lo permette. Lo dimostra anche il fatto che Camera e Senato, con rispettivamente 630 e 315 rappresentanti, fanno più o meno le stesse cose. Dall’altro lato, esiste però un problema per il Senato italiano, che non ha una specificità funzionale, come sarebbe tipico di una camera alta, e, per compiti e competenze, è una vera e propria seconda camera bassa. Quindi alle camere basse deve essere comparato.
Già adesso esso svolge compiti del tutto analoghi a quelli di gran parte delle camere basse con il rapporto rappresentanti/cittadini più basso in assoluto. Con il taglio a 200 membri, un numero identico a quello della camera finlandese a fronte di una popolazione 11 volte più grande, esso avrebbe un rapporto rappresentanti/cittadini (1:302000) che sarebbe 2,25 volte peggiore delle Cortes spagnole e che lo porrebbe in una categoria di rappresentatività totalmente anomala e completamente separata, di svariate grandezze, rispetto a assemblee con simili competenze. Questo sarebbe aggravato dalla situazione sistemica italiana che obbliga il Senato a tenere il passo con la Camera, certamente meglio attrezzata, già adesso e ancor più con la riforma.
La riduzione del numero dei parlamentari, oltre a creare un chiaro affanno per il Senato, ha implicazioni per il funzionamento dei Gruppi parlamentari e delle Commissioni. Per formare Gruppi parlamentari sono necessari 20 membri alla Camera e 10 al Senato.
Con i numeri attuali, il taglio farebbe scomparire «Liberi e uguali» alla Camera e «Per le Autonomie (SVP-PATT, UV)» al Senato. Italia Viva e Fratelli d’Italia sarebbero a rischio. In caso di nuove elezioni, la sorte potrebbe sfavorire Forza Italia invece di Fratelli d’Italia, ma le conseguenze sistemiche sarebbero le stesse. In particolare, aumenterebbero i parlamentari ‘di Serie B’ dei gruppi misti (GM). Notoriamente penalizzati, tra l’altro, nell’accesso ai tempi di intervento contingentati e nella conferenza dei capi gruppo. Già adesso quelli italiani sono i GM più grandi d’Europa (7% alla Camera e 8% al Senato). Tali numeri sono già di per sé disfunzionali ed eccezionali. In Germania i GM arrivano a meno del 1%, in Francia a circa il 3%.
Anche tenendo conto che le soglie per la formazione dei Gruppi parlamentari saranno abbassate dopo la riforma (ma sarebbe utile sapere già da ora di quanto), con il taglio aumenterebbe comunque il controllo dei gruppi più grandi sulle Commissioni. Soprattutto le più importanti, dove i partiti piccoli sarebbero sottorappresentati e spesso non presenti, e le loro Presidenze.
Le Commissioni sono il luogo dove i parlamentari hanno veramente l’opportunità di dare il loro contributo all’elaborazione delle leggi anche se non di loro iniziativa. Con la riduzione, diminuirà la capacità dei partiti minori di avere la presenza necessaria. Le commissioni permanenti sono adesso 14 in ambedue le camere. La moltiplicazione degli incarichi per i senatori dei partiti più piccoli sarebbe incontrollabile e per molti insostenibile. Una riforma delle Commissioni sarebbe quindi inevitabile e sarebbe necessario conoscere già da ora la forma che prenderebbe il loro sistema (Quante? Con quali competenze?).
In conclusione, il taglio dei parlamentari comporta necessariamente un aggiustamento sostanziale del nostro sistema parlamentare. Ciò avrebbe richiesto una riforma più ampia, che però non è stata affrontata. Essa sarebbe dovuta passare prima per il superamento del bicameralismo paritario, che rappresenta la principale anomalia italiana. C’è il rischio che la riforma attuale invece lo confermi per un periodo indefinito (chi si azzarderà a riformare un Senato appena ridimensionato?).
Ma anche la sola riduzione del numero dei parlamentari ha conseguenze non eludibili sulla operatività del parlamento, che debbono essere affrontate per evitare conseguenze negative nell’immediato. Una soluzione può valere l’altra. Bisogna però dire, contestualmente alla riforma, quali misure si vogliono prendere per affrontarne le conseguenze. Altrimenti essa va respinta. Non si può semplicemente e, purtroppo italianamente, dire: intanto facciamo il taglio e poi si vedrà.
Luciano Bardi dice
Ha ragione Signor Di Palma, non si può chiedere agli elettori di essere esperti di diritto costituzionale o scienza politica. Ma coloro che sostengono pubblicamente il Sì dovrebbero esserlo e dovrebbero portare argomentazioni più convincenti di quanto non abbiano fatto. Proprio per questa loro mancanza il voto sulla materia più importante del nostro ordinamento, la Costituzione, rischia di diventare per molti un voto di protesta, come lei, temo correttamente, lo caratterizza.
Gioacchino Di Palma dice
Scrive il Prof. Bardi: ” …Nessuno degli argomenti dei sostenitori della riforma dimostra che la riduzione produrrà un miglioramento della qualità della democrazia o un efficientamento della operatività del parlamento …”.
Non entro nel merito del suo scritto, e nel tecnicismo proprio di chi certo non deve apprendere nulla sull’argomento, e condivido anche che la politica del “poi si vedrà…” non è condivisibile, ma certo la eventuale vittoria del “SI” deve, dovrà e dovrebbe essere valutata in relazione all’abisso creatosi tra gli elettori e gli eletti. Lo scollamento, la disaffezione e la lontananza di una politica vissuta come qualcosa che riguarda solo un lontano “Palazzo”, è un elemento di cui tenere conto circa le decisioni dei moltissimi che voteranno “SI”, ed allora anche un risibile risparmio economico sarà meglio, in ogni caso, di un risparmio che non c’è.
Non si può chiedere agli elettori di essere responsabili, esperti di diritto, e/o di scienze politiche, se lo stesso elettore ha perso ormai ogni contatto con quella politica o quei politici che dovrebbero rappresentarlo.
Gianfranco Pasquino dice
da ex-Senatore già allora oberato e affannato, condivido le sobrie, pacate e documentate riflessioni di Luciano Bardi a questa revisione costituzionale. Bravo. Meno è raramente meglio tranne che per una eventuale dieta. Ma la democrazia parlamentare non deve essere messa a dieta. Deve essere adeguatamente alimentate con competenze e esperienze.
oreste massari dice
ottimo!