Dino Cofrancesco (Un commento a Vittorio Possenti, 9 gennaio) è intervenuto sul mio L’insegnamento sociale della chiesa fonte di ispirazione per molte dottrine politiche? (12 dicembre 2016), in cui sviluppavo l’idea che tale insegnamento (ISC) potesse e dovesse costituire un punto di riferimento obbligato per i fondamentali orientamenti nel dibattito mondiale in corso, valendo come la “filosofia pubblica” forse più elaborata e solida oggi disponibile. In proposito scrivevo: “Per aiutare la nascita di nuove culture politiche sono necessari molti fattori di vario ordine. Dobbiamo evitare come la peste il ‘metodo twitter’, che con i suoi messaggi brevissimi scatena emozioni e fa appello a parole d’ordine che impediscono alla gente di pensare: il twitter è il ritratto fedele e infelice della situazione civile e del dibattito politico italiano. Ci vuol altro, ci vogliono idee, passioni, sentimenti, carne e mente, lucidità. Necessaria è la capacità di ascolto, ma non solo: occorre trovare un possibile terreno d’incontro postideologico. Avanzo una proposta o meglio un suggerimento in punta di piedi, sapendo che può facilmente essere preso di traverso. Un possibile luogo d’incontro è quello dell’insegnamento sociale della Chiesa che non è in senso stretto una cultura politica ma una fonte primaria di ispirazione per diverse culture politiche”.
Il commento di Cofrancesco, alquanto affrettato, si condensa nell’asserto che vi sarebbe una notevole affinità tra la prospettiva liberale e quella dell’ISC sui fini quali il rispetto del creato, della vita, la solidarietà sociale, nonostante quella che egli giudica la vaghezza dei canoni dell’ISC quando siano messi alla prova nella prassi concreta. La ‘documentazione’ addotta concerne in specie il mercatismo liberista, in merito al quale egli porta esempi italiani.
Sulla questione di sostanza vorrei disingannare il mio interlocutore: l’accordo di base sui principi enunciati ed altri non enunciati, che a lui sembra fervido e profondo, proprio non sussiste, ed anzi in ciò risiede una delle cause primarie del presente disordine etico-politico in Occidente. Non è difficile raccogliere i criteri fondanti dell’ISC: la persona; il bene comune; la destinazione universale dei beni; i limiti del mercatismo liberista; la sussidiarietà; la solidarietà; la custodia del creato e della vita; il rapporto tra diritti e doveri; il valore del diritto naturale come argine verso un positivismo giuridico che nelle sue espressioni radicali conduce oggi al nichilismo giuridico. Sceverando con una certa attenzione, non sarebbe impossibile cogliere su tali aspetti gli orientamenti ultimi e le opzioni principali delle vigenti culture politiche nostrane, sebbene ciò si esprima in prese di posizione secondo l’urgenza del momento, assai più che in una riflessione coordinata e approfondita. Anche questo porta acqua al mulino di chi ha osservato con ragione la carenza di culture politiche adeguate nell’Italia di oggi, motivo tutt’altro che secondario della permanente crisi della politica.
Tra i nuclei fondamentali dell’ISC svetta il principio-persona che intende l’essere umano come dotato di una dignità trascendente, per cui esso non è la somma delle visioni, profondamente parziali, che ne danno le scienze umane volta a volta prevalenti; l’uomo non è scomponibile e ricomponibile a piacere, come fosse un oggetto o un meccano. La categoria ‘persona’ è e rimane un’idea fondamentale nella controversia sull’humanum in corso ovunque.
Su quasi tutte le nozioni e i criteri appena citati l’analisi evidenzia che le differenze tra il pensiero pubblico proposto nell’ISC e quello prevalente in Occidente, spesso di orientamento grosso modo liberale, sono considerevoli: qui non vi è possibilità di mostrarlo se non per cenni e per alcuni soltanto dei concetti indicati. Chi oggi si preoccupa degli inderogabili doveri di solidarietà di cui dice la nostra Carta (art. 2), mentre l’accento cade enfaticamente solo sui diritti che non di rado sono solo pretese? Chi non vede che sulla custodia del creato e della vita le posizioni divergono profondamente tra coloro che lo reputano un tema secondario cui porrà rimedio la tecnica (e da cui trarrà vantaggio la finanza), e coloro che con sempre maggior insistenza pensano che non possiamo affidare alla volontà di potenza della tecnica il nostro futuro? E’ difficile non percepire che nelle concezioni liberal-libertarie più esplicite la nozione di persona è presa come paravento per coprire un individualismo drastico (ogni uomo è un’isola) che punta al selfinterest, minimizza la relazione e punta sull’autodeterminazione come l’unico assoluto che ancora rimane. Riflessioni analoghe valgono per una politica dei diritti che, portata all’esasperazione finisce, per distruggere il concetto di dovere, di modo che il diritto diventa un’arma puntata contro l’altro.
Sulla tutela di coloro che non hanno voce, i diritti e i doveri, il compito della legge civile, il nichilismo giuridico che a mio avviso circola nelle nostre società sono intervenuto molte volte, segnalando quanto considerevoli siano le diversità in Occidente su tali temi, anche per la forte presenza di una cultura liberal-libertaria che pone in primo piano quasi solo i diritti di libertà (su ciò rinvio a Diritti umani. L’età delle pretese, in uscita presso Rubbettino).
Per Cofrancesco il nesso tra uguaglianza e libertà dovrebbe essere tale che, quando entrassero in conflitto, dovrebbe prevalere sempre la libertà quale valore finale, mentre l’uguaglianza sarebbe solo un valore strumentale. Tutto ciò è un nucleo centrale del liberalismo moderno, o forse meglio di una sua versione oggi largamente prevalente. In merito posso aggiungere di non essere un liberale: amo la libertà, ma essa non è né può essere lo scopo politico supremo; ancor meno sono un libertario. Vi è anzi grande bisogno di una concezione postliberale e postlibertaria sugli elementi prima evocati. Il termine postlibertario, che non significa naturalmente ostilità verso la libertà, è a mio parere sostanziato da diversi nuclei cui annetto rilievo fondamentale: 1) i diritti di libertà non devono avere sempre e dovunque il predominio; 2) il bilanciamento tra diritti e doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; 3) la libertà del singolo non può riplasmare le differenze antropologiche fino a farle scomparire; 4) è un errore applicare indiscriminatamente il principio di non-discriminazione, poiché è semplice atto di giustizia trattare diversamente realtà diverse; 5) occorre porre un argine tra desiderio e diritto; 5) non è lecito proseguire nella compressione dei diritti sociali a favori di quelli individuali di libertà, come accade in Occidente da circa un quarto di secolo.
A questi nuclei aggiungo un elemento ulteriore, concernente la situazione italiana che conosco meno peggio: i cosiddetti nuovi diritti di libertà non possono provenire da un nuovo schema dei poteri in cui venga superata la subalternità della giurisdizione alla legislazione, per elevare entrambe ad un livello pari, come si opina in alcuni settori del neocostituzionalismo. L’operazione appare molto forzata, dal momento che la giurisdizione, che pretenderebbe attribuirsi una sorta di licenza di parificazione al potere legislativo, non ha legittimità popolare né responsabilità politica. Ne consegue un doppio e grave danno: il depotenziamento delle istituzioni politiche elettive a favore delle magistrature non elettive, che si fondano su una competenza ‘tecnica’, e che esercitano con le loro decisioni influssi profondi sulla vita di singoli e della collettività. In secondo luogo viene introdotta una nuova funzione dei giudici: non quella di garantire e amministrare il diritto, ma quella di crearne di nuovo, magari anche contra legem, ponendolo sotto l’invocato usbergo dei diritti costituzionali per dare loro parvenza di legittimità.
La ‘politica dei diritti’ ha mostrato di trascurare la ‘politica dei doveri’ come se si trattasse di un elemento secondario e quasi ininfluente sulla vita comune, e come se fosse possibile attribuire diritti senza richiedere doveri, senza accorgersi che in tal modo viene rotto e perfino travolto l’equilibrio esistenziale di fondo di una società e di una democrazia. Queste non possono fare a meno di una chiara proporzione tra diritti e doveri, senza di cui esse rischiano la dissoluzione e la cancellazione di diritti primari. Non mi avventuro oltre se non per osservare che sarebbe opportuno mettere a confronto due prospettive, ben esemplificate in due volumi: Il diritto di avere diritti di S. Rodotà e Il dovere di avere doveri di L. Violante.
Concludo con un cenno al nesso religione-politica. Cofrancesco non ha bisogno di cautelarsi dall’eventuale accusa di essere un mangiapreti o peggio un laicista, perché non lo è, e io non formulerei diagnosi di questo tipo nei suoi confronti. Semmai la dichiarazione preventiva da lui avanzata può apparire superflua in quanto il nerbo del mio intervento consisteva nel valutare l’ISC come una fondamentale filosofia pubblica, una delle maggiori tra quelle elaborate nella modernità sino ad oggi. Non vi è dunque spazio a questo livello per chiamare in campo formule teologiche come l’extra ecclesiam nulla salus che toccano ben altri piani. Forse basterebbe possedere un’idea meno di maniera dell’ISC.
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