È naturale guardare con un certo disincanto all’attuale dibattito sul presidenzialismo. Da quarant’anni, infatti, nel nostro Paese si discute di riforme istituzionali per dare maggiore stabilità ai Governi, di fatto inutilmente. Tutte le precedenti proposte infatti o si sono arenate in Parlamento oppure sono state respinte per referendum dagli elettori. Nemmeno il clima di unità nazionale che ha caratterizzato i governi Monti e Draghi è stato in tal senso favorevole.
Seppur vincendo a fatica il conseguente pessimismo, non si può però escludere del tutto che questa possa essere la volta buona. Depongono in tal senso: le prospettive di legislatura dell’attuale maggioranza di governo; la determinazione con cui essa ha subito riproposto al centro del dibattito politico un tema, peraltro ad essa sempre caro; la disponibilità raccolta da quella parte dell’opposizione che non sembra tatticamente ostile al tema; la crescente domanda in tal senso proveniente dagli elettori, i quali, quando non vittime di pregiudizi politici (come quelli che contribuirono ad affossare la riforma Renzi nel 2016), chiedono governi più stabili; l’esigenza, non da ultimo, di rappresentare con maggiore forza ed efficacia le posizioni del nostro Paese nelle sedi dell’Unione europea dove sempre più vengono prese le decisioni politiche fondamentali.
È evidente che il tema del presidenzialismo è stato volutamente posto in forma tecnicamente generica per raccogliere il maggior consenso sociale e politico possibile sul rafforzamento dell’esecutivo. Il che, se è comprensibile in questa prima fase, ovviamente non lo sarà quando si tratterà di scegliere quale forma di governo dare alle nostre istituzioni politiche tra quelle astrattamente possibili: elezione diretta del Presidente della Repubblica che impersona il potere esecutivo e non può essere revocato dal legislativo, da cui è rigidamente separato (presidenzialismo: come negli Stati Uniti); elezione diretta del Presidente della Repubblica anch’egli inamovibile ma costretto però a condividere il potere esecutivo con un Primo ministro in grado di ottenere la fiducia (o non avere la sfiducia) della camera politica (semipresidenzialismo: come in Francia); elezione diretta del Primo ministro la sfiducia verso il quale da parte della camera politica ne provoca la decadenza e la contestuale interruzione della legislatura (neo-parlamentarismo: come nelle nostre regioni e comuni); elezione parlamentare del Primo ministro (un tempo Israele), cui spetterebbero poteri oggi attribuiti al Presidente della Repubblica, come la nomina dei ministri e lo scioglimento delle Camere, e che potrebbe essere sfiduciato in corso di legislatura solo in presenza di una nuova maggioranza in grado di eleggere un nuovo Primo ministro (premierato: Spagna e Germania).
Come si sarà notato, il vero discrimine è tra chi propugna l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo – Presidente della Repubblica o Primo ministro – e chi, nella quarta ipotesi, ne sostiene comunque l’elezione parlamentare, seppur prevedendo l’introduzione di meccanismi tesi a rafforzare la figura del Presidente del Consiglio ed a razionalizzare il rapporto di fiducia.
È bene subito chiarire che l’elezione diretta del Presidente della Repubblica lo trasformerebbe da organo di garanzia ad organo politico. È semplicemente illusorio ritenere che, come pur avviene – ma non sempre – in altri paesi (Austria, Irlanda, Islanda, Finlandia, Portogallo, Stati ex socialisti dell’Est) – anche in Italia un Presidente eletto direttamente avrebbe un ruolo marginale rispetto al rapporto tra Parlamento e Primo ministro in cui continuerebbe a concentrarsi il potere d’indirizzo politico. Ciò per tre motivi.
Innanzi tutto, rispetto ad altri Capi di Stato, il nostro Presidente della Repubblica è dotato per Costituzione di rilevanti poteri, ereditati dal Sovrano statutario, tra cui quelli di nomina del Presidente del Consiglio e di scioglimento delle Camere; poteri che, se eletto direttamente, egli non eserciterebbe non più a fini di controllo e di garanzia (e, talora, di supplenza), ma in chiave politica proprio in forza della legittimazione elettorale ricevuta. Inoltre, tutti gli atti oggi formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi – a cominciare dalla emanazione dei decreti legge –diverrebbero formalmente e sostanzialmente presidenziali.
Da qui il secondo motivo: alla carica di Presidente della Repubblica non si candiderebbero – come finora accaduto – uomini politici di secondo piano ma i leader dei partiti, anche a tal fine coalizzati, dando alla carica una inevitabile torsione politica assolutamente incompatibile con l’attuale ruolo di rappresentante dell’unità nazionale. Insomma, un Presidente di parte, non di tutti, eletto sulla base di un programma politico a seguito di una dura competizione elettorale. Se già oggi siamo una «forma parlamentare con correttivo presidenziale» (Lauvaux e Le Divellec), domani, eleggendo il Presidente della Repubblica, quello che oggi è un correttivo diverrebbe inesorabilmente il baricentro del sistema politico.
Non credo – e siamo al terzo motivo – che un simile scenario sia auspicabile. L’elezione diretta dell’esecutivo – quindi non solo del Presidente della Repubblica ma anche del Primo ministro – mette in conto la possibilità di trasformare la maggiore minoranza in maggioranza. Questo avviene sia in caso di elezione a turno unico (come nelle nostre regioni), sia in caso di elezione a doppio turno (come nei nostri comuni). Il che implica però la condivisione di fondo di alcune opzioni politiche fondamentali, la cui messa in discussione altrimenti potrebbe lacerare il paese. Fu questo il motivo per cui i nostri costituenti optarono per un sistema parlamentare estremamente debole (il Presidente del Consiglio primus inter pares tra gli altri ministri, il bicameralismo paritario, il sistema elettorale proporzionale). Oggi a quelle ormai scomparse fratture ideologiche se ne sono però sostituite altre, non meno importanti: il rapporto con l’Europa (europeisti contro sovranisti); la politica estera e la collocazione internazionale del nostro Paese, a cominciare dai rapporti con la Russia di Putin; la concezione – in taluni casi assoluta e populista – della sovranità popolare in relazione alle forme ed ai limiti entro cui essa va esercitata, a cominciare dal ruolo del Parlamento; le divisioni sociali tuttora esistenti, magari sotto altre forme (centro-periferia, grandi città-centri rurali).
In questo contesto socio politico, se non si vuole cadere nella mera ingegneria costituzionale, ci si deve innanzi tutto chiedere se sia opportuno, eleggendo direttamente il Presidente della Repubblica, rinunciare a quelle prestazioni di unità e di garanzia, a quell’organo di moderazione e di stimolo che, seppure con alterne vicende, il Presidente della Repubblica ha rappresentato nel nostro paese e che oggi ne fanno un solido punto di riferimento per le nostre istituzioni democratiche. Nella stessa prospettiva, ci si dovrebbe chiedere se l’elezione diretta del Primo ministro, in abbinata con un sistema elettorale che gli garantisse la maggioranza parlamentare (e qui si aprirebbe un’altra partita, non meno complicata…), potrebbe spaccare il Paese, le cui dinamiche e i cui equilibri, ben diversi da quelli di un Comune o di una Regione, richiederebbero minori rigidità di quelli oggi previsti per tali livelli di governo, quali lo scioglimento automatico delle camere in caso di crisi di governo.
Insomma, è meglio che il percorso delle riforme istituzionali si diriga verso Berlino o Madrid, anziché Parigi o Tel Aviv.
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