Le amanti di Messina Denaro, gli oggetti ritrovati nei suoi covi; ma anche le perfomance più o meno inaspettate al Festival di Sanremo. Sono esempi recenti di una produzione informativa che dilata gli eventi principali e di questi va a cercare e si sofferma sui loro ‘derivati’, cioè rivoli, ramificazioni, luci sghembe ma potenti su elementi marginali. Così come i derivati in finanza, questi prodotti collaterali appaiono tossici, e suscitano perplessità sul sano e ‘corretto’ funzionamento dell’ecosistema dell’informazione.
Si tratti di scandali politici o di inchieste giudiziarie, il sistema dell’informazione sembra avere una forza interna ineludibile che lo conduce a occuparsi di aspetti ed elementi accessori o periferici, lungo una serie di slittamenti tematici e di focalizzazione, che seguono le regole della personificazione e privatizzazione delle vicende raccontate.
Nel caso delle indagini effettuate dopo l’arresto di Messina Denaro, dopo due settimane la scena mediale illumina le ‘amanti’ del boss (emerse nel corso dell’investigazione sulla sua rete di protezione). Una è bionda, l’altra è mora; una fa l’imprenditrice, l’altra l’insegnante; una porta i capelli a caschetto, l’altra lunghi. Di una si dice che in paese non può passare inosservata. Il «Corriere della sera» impegna un giornalista ad andare presso l’abitazione di una di loro per reperire informazioni, ovviamente senza risultato, se non quello di notare lì vicino un’automobile di lusso e quindi importunare parenti e vicini per domandare se l’abbia avuta in regalo. «Vanity Fair» fornisce un accurato promemoria delle amanti del boss, con le loro caratteristiche, includendo anche l’amante ‘storica’, già nota attraverso le precedenti indagini. Ma di una o di tre si occupano tutti i media, da quelli locali a quelli nazionali.
C’è da chiedersi come si possa, oggi, leggere questo meccanismo non nuovo; nella situazione attuale in cui l’avvento del digitale ha trasformato – si dice radicalmente – l’ecosistema mediale.
Ecosistema, per come è oggi. In cui le notizie – si badi bene: soprattutto le singole notizie – sono diventate una partita tragica per la sopravvivenza dei gruppi editoriali e delle testate, anche quelle con tanta storia e l’antica nomea di quality papers. È infatti passato del tempo da quando uscì il famoso saggio L’ultima copia del New York Times (2007); non si è avverata la profezia (ancora una postura tipica di molti intellettuali contemporanei, insieme con la denuncia), ma si è affermato un nuovo sistema di distribuzione dei prodotti informativi, e con esso dei processi di prelievo e produzione delle notizie. Siamo cioè arrivati a una torsione dell’ecosistema giornalistico indotta dal mondo digitale, che ha non solo creato un settore nuovo, ma anche prodotto conseguenze, appunto sistemiche, sulle altre piattaforme di produzione e distribuzione.
Se in Italia ed Europa avevamo fatto i conti, già dagli anni 80 del secolo scorso, con il propagarsi agli altri mezzi della commercializzazione televisiva, adesso facciamo i conti con una commercializzazione ‘di seconda fase’, che appare anche più proterva e dirompente. Sì, perché sono i prodotti-notizia nella loro singolarità a portare il segno di un nuovo modo di concepire l’importanza degli eventi, a subire gli interventi di confezionamento atti a farli ‘passare’ nel web; sono loro, le singole notizie, a dover attrarre sia l’attenzione sia il gradimento di pubblici inevitabilmente immersi nel sovraccarico informativo.
Pubblici? Quali? Quelli che, pur differenziati per età o per territorio o per posizione professionale, hanno trovato vantaggioso l’uso polivalente del device principe dell’attuale epoca tecnologica, lo smartphone. Vantaggioso e utile per avere notifiche costanti di aggiornamento (gratuitamente), da visionare negli spazi interstiziali della giornata. Ma notizie pensate, scritte e presentate per ottenere visualizzazione e like, per ottenere un flusso di dati di marketing, considerati vitali dai digital editor e dai loro accoliti, più o meno convinti ma efficienti, fino all’ultimo redattore.
Come un ricorso storico, si ripresentano gli ingredienti classici dell’informazione commerciale, individuati e in vario modo denunciati dalle scienze sociali già dai tempi dei quotidiani popolari (e anche di quelli un po’ elitari), fino a gridare alla deformazione banalizzante e volgare della cultura, fino alla previsione di conseguenze nefaste per la democrazia. E allora ci si può domandare quale sia la differenza tra il prima e l’adesso; se oggi vi sia qualcosa di più.
Non solo le analisi, ma anche il nostro vissuto ci dicono che quel qualcosa in più c’è. Dentro questo differenziale, si possono segnalare la più forte dispersione della responsabilità giornalistica, rafforzata dalla mancanza di responsabilità editoriale di qualsiasi piattaforma, se non nella modalità di tardiva autoregolamentazione etica. Ciò va a braccetto con il fatto che ad essere fruite sono le unità informative elementari, e non più i prodotti informativi complessi nella loro organicità. Oltre a questo, il bias di sistema è dato dal tentativo di attrarre verso l’informazione, così ristrutturata, la massa di lettori-navigatori che è trasmigrata verso i social o su questi ha nativamente costruito le proprie diete mediali. Queste si configurano, più di ieri, come miscele instabili di preferenze di genere e di abitudini di fruizione-consumo, tese ad una condivisione orizzontale che impasta pubblico e privato, finzione e realtà. Di conseguenza, l’importanza degli eventi e il loro racconto incorporano questa idea di fruitore dell’informazione, con i relativi comportamenti attesi, peraltro operativamente stimolati dalle affordances degli ambienti digitali.
Devo però osservare, come detto prima parlando di ricorso storico, che, sebbene con intensità apparentemente diversa, la natura del problema è ampiamente nota. Vale a dire: tutte le fasi di innovazione tecnologica hanno portato al rimodellamento dei sistemi mediali e, con essi, dei modi di concepire e produrre informazione. E hanno generato effetti a catena su tutti i media, portati al riposizionamento, ossia a trovare e proporre un nuovo trade-off tra funzione sociale e imperativi industriali-commerciali. Simmetricamente, le critiche rivolte ai nuovi media – come quelle ai media elettronici, che hanno riempito le biblioteche – si nutrono di uno schema discutibile, rigidamente normativo, retoricamente ripetitivo ed euristicamente inefficace.
L’arrivo del terzo incomodo, costituito dai media digitali, ha definitivamente smantellato l’opposizione concettuale – per quel poco che ne rimaneva, magari in modo latente – tra giornali (intelligenti) e televisione (banale). Ha fatto capire che elitario e popolare si trovano in tutti i mezzi; anzi è ibrida ciascuna testata al suo interno.
Alle domande poste nel corso del ragionamento abbozzo un inizio di risposta: tutti i prodotti informativi esercitano la pratica della dilatazione degli eventi nella direzione dello human interest, cioè esercitano la narrazione di impronta letteraria o fictional, mettendo in scena personaggi, tratti di personalità di attori, che possano interagire in chiave drammaturgica.
Ma questo, forse non si è ancora capito – perlomeno dal saggio di Morin sullo Spirito del tempo – è il modo di ‘conoscere’ della contemporaneità: in una commistione inseparabile di elementi rappresentativi e di ancoraggio alla realtà; spola e oscillazione tra immaginario e reale.
Si pensi che Roberto Saviano ha scritto un pezzo, lungo e molto interessante (Lusso, donne e nessun erede), sulla differenza tra Messina Denaro e i suoi maestri e mentori corleonesi, proprio considerando i pochi, ma significativi, elementi sovvenuti dai covi del boss, dalla sua passione per il lusso, anche dalla sua ‘immoralità’ nei rapporti con le donne, almeno secondo gli antichi codici dell’ambiente di provenienza. Lo ha scritto il 31 gennaio, nel magazine settimanale di attualità varia del «Corriere», proprio nella settimana delle amanti.

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