Da anni – o forse da sempre – la democrazia liberale è considerata un regime in crisi. Il suo essere plurale e aperta la rende facilmente bersaglio di interpretazioni critiche e di profezie nefaste circa la sua prossima fine. È tuttavia vero che esiste un malessere attuale, contemporaneo, delle democrazie occidentali. È prima di tutto una crisi di accountability: il gap tra le aspettative del demos e le risposte del kratos tende ad aumentare da diversi decenni. I sintomi di questo malessere sono numerosi. Nel mio volume recente (Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, edito da Rubbettino), ne ho isolati alcuni: calo tendenziale della fiducia nei partiti, nei politici di professione e nelle istituzioni rappresentative; riduzione della partecipazione elettorale; aumento della volatilità elettorale; incremento del numero dei partiti; nascita e morte (politica) repentina di innumerevoli nuovi partiti; intensificazione dell’uso dei referendum ad hoc; riduzione della durata media in carica dei governi; diffusione di stile e atteggiamento populisti. Tutti questi sintomi indicano una democrazia indebolita (specie sul suo versante liberale), con un demos partecipe a intermittenza, apatico e perennemente insoddisfatto, sempre più spesso mosso da quelle che chiamo le tre ‘i’: istinti, istanti e immaginario. E che sostituisce il cosiddetto ‘voto di opinione’ con il ‘voto di impulso’, una quarta ‘i’.Nella letteratura politologica si possono ritrovare numerosissimi ‘colpevoli’, gli agenti patogeni del malessere: la crisi dei partiti e della rappresentanza, la mediatizzazione della politica, la personalizzazione/leaderizzazione, la fine delle ideologie, l’arrivo della post-verità e dei populismi e tanti altri fenomeni, ognuno dei quali ha ovviamente il suo peso e costituisce un problema reale.
Tuttavia, mi sono chiesto: se tutti questi fenomeni sono veri e sono diffusi praticamente in ogni regime democratico, deve esserci qualcosa di più profondo. E, andando in profondità, sono arrivato alla base, ossia al popolo. I nostri mutamenti come cittadini sono alla base dei mutamenti del sistema politico. Se la democrazia è malata, lo è perché si è ammalato il demos. In questo senso è una demopatìa.
Nello specifico, si tratta di una sorta di patologia autoimmune e degenerativa, nel senso che si è prodotta a seguito di mutamenti fortemente voluti in tutto l’Occidente e che proseguono e si intensificano nella contemporaneità. Il malessere democratico deriva, cioè, dalla lunga transizione alla postmodernità (o forse all’ipermodernità): individualizzazione, fine delle grandi narrazioni, perdita del senso sociale, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio, sindrome consumistica e logica dell’‘usa e getta’, crisi delle identità e fine delle comunità solide, narcisismo. Se la società diventa prima di tutto psicologica, egocentrata e individualizzata, ogni settore della nostra esistenza ne risente: dall’economia, alla cultura, alla politica. Ciò non vuol dire che la politica non sia esente da colpe. Tuttavia, le sue responsabilità vanno lette all’interno di una big picture, di una serie di mutamenti sistemici che per certi versi la “obbligano” ad essere colpevole. Idem per i mass media.
Le innovazioni tecnologiche sono i grandi motori di questi cambiamenti antropologici. Ogni innovazione è un medium e ci cambia, a prescindere dall’utilizzo che se ne fa: questa era la tesi di McLuhan, racchiusa nella celebre formula ‘il mezzo è il messaggio’. Concentrandoci sui media, il passaggio dall’era tipografica a quella televisiva ha comportato determinate conseguenze. Quello dall’era televisiva a quella digitale ne comporta altre. Tutte però vanno nella stessa direzione: incrementano la velocità e l’accumulazione di informazioni premiando la sintesi e riducono conseguentemente la concentrazione e l’approfondimento; valorizzano ‘istinti e istanti’ e allontanano la logica e il ragionamento; esaltano l’immagine e penalizzano il testo scritto; ricercano il sensazionalismo ‘a frammenti’ per catturare l’attenzione e alimentano l’incoerenza nel discorso pubblico, e cosi via. In questo senso, la demopatìa ha luogo sia per ragioni storico-culturali (la modernità che produce ‘inevitabilmente’ la postmodernità) che per ragioni tecnologiche (la transizione dall’era tipografica a quella digitale), entrambe legate a doppio filo: tutte le innovazioni tecnologiche recenti e vincenti sono strumentali e funzionali alla filosofia moderna.
Questo mutamento è totale perché cambia il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di comportarci. È a tutti gli effetti una transizione antropologica. In sintesi, potremmo dire che oggi il consumatore ha sostituito il cittadino, anche in politica. Il pubblico è sempre più individualizzato; è composto da elettori-consumatori via via più insoddisfatti e alla ricerca di nuovi stimoli forti e spiazzanti (che è esattamente la logica di base della società dei consumi), di istanti pieni di dopamina e di gratificazioni immediate. Ciò che noi cerchiamo dalla politica di oggi non è più un modello di riforma sociale (tipico dell’era del voto ideologico) o un insieme di soluzioni di policy che riteniamo praticabili e vincenti (come era previsto nell’era del voto di opinione). Noi cerchiamo fondamentalmente emozioni forti e conferme delle nostre convinzioni, peraltro sempre più instabili. Cerchiamo sintonia emotiva, pillole psicoterapeutiche per le nostre insicurezze. Eroi individuali come appigli salvifici. Ciò fa sì che la politica performante, in un’ottica di cattura del consenso, sia sempre più quella che plasma la propria offerta in base ai desiderata della domanda, cioè del pubblico. Ecco perché io definisco la leadership contemporanea come followship: i leader vincenti di oggi sono quelli che meglio degli altri si sintonizzano sulle oscillazioni continue dell’opinione pubblica. Non ci guidano verso idee loro, convincendoci che siano le migliori. Ci vendono idee nostre come fossero loro. Questo facilita l’ottenimento del consenso, ovviamente.
Tuttavia, i governi durano mediamente meno di prima e l’insoddisfazione del demos continua a crescere perché entra in gioco quella che Christian Salmon ha definito la «cerimonia cannibale». Per catturare la nostra attenzione e il nostro consenso, i leader-follower sono costretti a seguire la logica dei media: devono fare sensazione, altrimenti neanche li percepiamo all’interno dell’oceano di informazioni nel quale siamo immersi. Per fare sensazione devono promettere ‘mari e monti’ e farlo con un piglio fortemente volontaristico (voglio e dunque posso, volere è potere) e con un taglio personale (quasi biopolitico). Quando però si è chiamati a mettere in pratica le promesse (ossia una volta al governo), subentrano tutte le difficoltà: 1) la complessità; 2) le risorse limitate; 3) il fatto che le opposizioni hanno carta bianca per riposizionarsi su ogni tema, mentre chi governa deve decidere e dunque essere più coerente, per definizione; 4) le cose buone non fanno notizia, quelle negative sì… e dunque l’opinione pubblica fatica a percepire cambiamenti positivi; 5) la personalizzazione rende i governanti di turno più precari di un tempo, perché l’immagine di una persona è più vulnerabile di quella di un’ideologia o di un partito; 6) subentra la neofilia, la voglia di novità del consumatore che semplicemente si stanca e ha bisogno di nuovi stimoli. E dunque cestina in tempi sempre più rapidi l’ultimo leader di turno che gli ha fatto battere il cuore. L’eroe diventa presto capro espiatorio. E il volontarismo (impotente) si trasforma in velleitarismo e continua ad alimentare l’insoddisfazione verso la politica in generale.
È indubbiamente un vicolo cieco. Perché tutti i settori e le variabili coinvolte spingono verso la stessa direzione: società (dei consumi), mass media, opinione pubblica e politica sono avviluppate entro logiche tra loro coerenti, ma che conducono esattamente nel punto in cui siamo. Ecco perché ad oggi nessuno possiede una terapia valida. Tuttavia, prendere coscienza della profondità del malessere, per quanto a suo modo deprimente, può già costituire un punto di partenza ‘terapeutico’. D’altronde, come scrive Giorgio Agamben, «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio».
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