[Introduzione da «Paradoxa» 3/2018, Scuola e Digitale, a cura di Adriano Fabris. Di seguito la prima parte dell’intervento, la seconda con la prossima uscita].
Viviamo in un’epoca complessa e interessante, a causa soprattutto delle grandi trasformazioni tecnologiche che hanno ormai cambiato il nostro ambiente quotidiano e le nostre forme di relazione. Viviamo però, per lo stesso motivo, in un’epoca di paradossi. Uno di questi paradossi riguarda l’ambito della formazione. È proprio la nostra scuola a esserne interessata. Il paradosso consiste nel fatto che, da un lato, le possibilità di apprendimento sono oggi enormemente ampliate, proprio grazie agli strumenti tecnologici di cui facciamo uso in maniera massiccia. Sono ampliate ben oltre i luoghi e i tempi in cui la formazione veniva tradizionalmente condotta: i luoghi e i tempi dell’istituzione scolastica. Dall’altro lato però, di fronte a questa disseminazione di opportunità formative, proprio l’ambiente della scuola ha manifestato diffidenza. Invece di accettare la sfida a integrare le ulteriori potenzialità educative nei loro progetti didattici, invece di provare a estendere al di là degli spazi a ciò di solito deputati la propria missione – rendendola davvero capace d’incidere sulla vita delle persone e sui vari aspetti della società –, molti insegnanti hanno sollevati dubbi e perplessità sulla funzione che gli strumenti tecnologici posso avere nei processi di apprendimento. Di più. È emersa una vera e propria paura nei confronti delle trasformazioni, a livello antropologico e sociale, che le tecnologie hanno posto in atto. Subito si sono aggiunte poi le preoccupazioni dei genitori e tutto ciò ha infine trovato la sua cassa di risonanza e la sua giustificazione teorica nelle tesi espresse pubblicamente da alcuni pedagogisti.
Questo è comprensibile ma, ripeto, paradossale. Comprensibile: perché è ben ovvia la resistenza di fronte a cambiamenti radicali, capaci d’incidere profondamente sulla mentalità delle giovani generazioni e tali da richiedere agli esseri umani sempre nuovi sforzi per governarli. Paradossale: in quanto, se gli insegnanti accogliessero davvero tale posizione di rigetto, finirebbero per smentire il criterio di fondo che anima il loro mestiere, cioè quello di formare gli studenti alle competenze che consentono loro di orientarsi nel mondo. Con in più l’aggravante del fatto che i nostri ragazzi continuerebbero, grazie al costante uso degli strumenti tecnologici, ad acquisire contenuti in maniera indiscriminata, incontrollata e per lo più non verificata, mentre la scuola, chiusa nelle sue vecchie abitudini, risulterebbe scollata dalle loro esperienze.
In effetti i ragazzi continuano ad apprendere e a formarsi anche al di fuori dalle aule scolastiche. Ciò peraltro è sempre avvenuto. Ma oggi la concorrenza del web è molto più temibile di quella che poteva provenire dalla tradizione famigliare o dalla cultura di un determinato gruppo sociale, che a volte si contrapponevano a quanto la scuola era in grado d’insegnare. Oggi ciò a cui le tecnologie emergenti danno accesso sono contenuti quasi inesauribili. Ciò che esse plasmano è il modo in cui il sapere viene attinto, elaborato e trasmesso. Oggi il rischio è che, se non si dimostra capace di orientare le nuove forme di apprendimento, la scuola possa trasformarsi in un mero residuo del passato e la sua funzione venga soppiantata da altre strategie formative, diversamente strutturate, maggiormente interattive e accessibili a tutti.
In realtà, nonostante le preoccupazioni e le resistenze di cui parlavo, molti insegnanti, molti formatori e molti studiosi si stanno muovendo da tempo in una direzione diversa. Lo fanno sulla base di riflessioni di ampio respiro. Lo fanno sulla base di esperienze concrete. I contributi pubblicati in questo numero di «Paradoxa» stanno a dimostrarlo.
Tutto ciò, peraltro, non sarebbe stato possibile se, da parte del MIUR, non fossero venute sollecitazioni all’esercizio di buone pratiche, non fossero state date indicazioni precise in tal senso e, soprattutto, se non fosse stato elaborato un progetto generale al cui interno ricondurre in ambito scolastico l’uso degli strumenti digitali e dei contenuti che possono venire acquisiti grazie a essi. Mi riferisco in special modo al Piano Nazionale Scuola Digitale. Esso rappresenta oggi, in Italia, il principale riferimento per lo sviluppo di politiche pubbliche volte a una formazione e a un apprendimento che siano in grado sia d’integrare al proprio interno le tecnologie digitali, sia d’integrarsi a loro volta con esse.
Si tratta più precisamente, come viene detto all’inizio del testo, di un documento d’indirizzo che intende lanciare una strategia complessiva d’innovazione della scuola italiana e promuovere un posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale. In esso si fa riferimento esplicito a quell’azione culturale che è oltremodo necessaria per rinnovare la scuola e per metterla in condizione di essere sempre di più uno spazio aperto di formazione, capace di prolungare la propria attività nei vari contesti di vita e d’interagire con le tecnologie che oggi, sempre più, sono divenute una fonte primaria di apprendimento per gli studenti. Per raggiungere tale scopo non basta integrare i contenuti tradizionali con quelli offerti in forme nuove dagli apparati tecnologici, ma è necessario soprattutto indurre gli studenti stessi allo sviluppo di specifiche competenze: quelle utili a farli muovere in maniera consapevole e avveduta in un mondo digitale che risulta sempre più articolato.
Non posso qui soffermarmi sui vari capitoli del Piano Nazionale Scuola Digitale. Mi basta sottolineare come in esso, già nelle sue prime sezioni, emerga chiaramente il fatto che nella nostra scuola, grazie a tanti insegnanti e grazie agli investimenti fatti in passato, una ‘via italiana’ alla formazione digitale – una formazione, cioè, che non sostituisca, ma integri le nuove opportunità con le strutture e l’impostazione culturale esistenti – risulta già ben delineata. Ciò nonostante, però, non in ogni caso questi sforzi sono recepiti e valorizzati. Si sono manifestate invece, spesso, le reazioni e le paure di cui parlavo all’inizio.
Un esempio è offerto dal dibattito, svoltosi in varie sedi pubbliche tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018, riguardo all’uso dello smartphone in classe. Si trattava, ben inteso, di un uso limitato ai soli fini didattici e comunque attuato sempre sotto la supervisione degli insegnanti (posto che essi ritenessero di potersene avvalere). Anche qui, di fronte all’equilibrato Manifesto promosso dal MIUR (e intitolato Dieci punti per l’uso dei dispositivi mobili a scuola), gli interventi pubblici al riguardo non sempre sono stati altrettanto equilibrati.
Forse tutto questo, però, ha una spiegazione. Le comprensibili paure, la paradossale tendenza al rigetto su cui ho insistito, forse hanno un motivo ben preciso. Probabilmente, cioè, dipendono da un brusco cambio di paradigma nelle modalità della formazione a cui la scuola è costretta dal diffondersi delle tecnologie digitali. È questo che preoccupa, è questo che fa paura. Si tratta, nello specifico, di modificare il rapporto, di sperimentare cioè, rispetto al passato, un diverso tipo di bilanciamento fra conoscenze e competenze.
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