Semplificare è uno di quei termini dal significato ambiguo. Di conseguenza fortemente esposto ad usi strumentali. Appare come verbo innocuo, vagamente smart, con una sua intelligenza intrinseca che può fungere da viatico verso la trasformazione delle nostre vite in meglio. Semplifichiamo, quindi tutto diviene più agevole, accessibile, raggiungibile. La bonarietà di questo verbo può essere ingannevole. Il semplificare sembra così ‘semplice’ da non nascondere fini diversi dall’appianamento delle difficoltà, negative per antonomasia.
La semplificazione è certamente auspicabile per i processi burocratici della vita sociale, per le modalità di accesso a questo o quel servizio. Per la gestione del traffico o fattispecie simili. Un processo agevolmente lineare. Ma non sempre e non in assoluto.
Vi sono ambiti che non possono e non devono essere semplificati, perché questo certificherebbe una disumanizzazione senza appello delle regole di convivenza e la ritrattazione dei diritti inalienabili.
Semplificare, talvolta, prende la forma del normare. Il percorso è un po’ tortuoso. Ogni volta che si aggiungono norme si crea, di fatto, una ulteriore complicazione pratica alla logistica delle prassi. Eppure alcune norme, pur aggravando il groviglio dei percorsi, si propongono di facilitare i piani decisionali. Di semplificare, appunto.
Entrando nel merito della bioetica, ad esempio, i casi di proposte normative sono innumerevoli e tornano oggi prepotentemente alla cronaca con la questione tutt’altro che risolta delle pandemie. Per facilitare la vita del dottore, delle equipe e delle strutture, si tenta di disciplinare i principi del triage, delle selezioni, delle scelte. Si progettano regole che possano appianare i meandri della gestione emergenziale.
Questo tipo di semplificazione è una strada pericolosa, il cui danno può essere fatale. Se si può organizzare l’assistenza, definire alcuni criteri come raccomandazioni, gestire le ipotesi prognostiche statisticamente significative, quello che non si può fare è predeterminare la direzione finale delle scelte.
Va riconosciuto un principio irrisolvibile di indeterminazione a priori nella decisione degli operatori secondo professione e coscienza. Va accettato che l’uomo è un sistema misto non riducibile ad una certezza decisionale assunta in anticipo. Questo principio di indeterminazione promana dalla inalienabile libertà personale affidata per scelta e missione alla deontologia del singolo e, specularmente, alla altrettanto inalienabile libertà di speranza del malato con cui equipe o medico si relazionano nel momento cruciale di ricevere la giusta cura.
Non è né morale, né umano, decidere a tavolino i gruppi o i singoli che possono entrare o essere esclusi dai trattamenti. Non ha alcuna rilevanza la giustificazione di una carenza di strutture idonee che, secondo il senso comune vettore di innumerevoli atrocità nella storia, renderebbero necessaria la scelta. La pesante ed inevitabile facoltà di scelta rimane giurisdizione individuale e temporale del medico (o equipe) in quel momento, perché nelle pieghe di quell’intrico decisionale si devono potere inserire tutti i dati relazionali e imprevedibili della contingenza, che insiste dentro il rapporto personale e non fuori.
Questa dimensione umana è altamente conflittuale. Ma bisogna comprendere che è impossibile bypassarla senza disumanizzare tutto il processo e la sua stessa percezione. Allo stesso modo non vale la giustificazione di un sacrificio del singolo per la collettività. Non vi è alcun fondamento etico che possa giustificare il sacrificio a tavolino di qualcuno per il gruppo. La collettività non può rappresentare il principio di sacrificio del singolo. Collettività è semplicemente il termine ideologico per identificare il numero dei singoli. Il funzionalismo, che è la grande tentazione delle emergenze, non ha nulla a che fare con l’etica. Nulla.
Si dirà che allora non vi è soluzione. Infatti non vi è e non vi può essere soluzione semplificatrice. Non vi è panacea ideologica che possa appianare un singolo dilemma nel dramma umano dell’esistere. Coloro che la hanno proposta hanno prodotto le mostruosità della storia, per poi giungere direttamente alla propria autodistruzione. Il processo in un primo tempo distrugge gli altri, quelli che si ritengono sacrificabili. Per avvitarsi quindi su se stesso e distruggere l’origine stessa di questa distorsione etica politica e umana.
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