Ero una giovane studentessa della laurea magistrale (quanti anni sono passati!), desiderosa di apprendere, di viaggiare, di confrontarmi. Avevo terminato in anticipo gli esami del secondo anno per concedermi una lunga pausa e sfruttare al meglio le opportunità offerte dal programma Overseas (una sorta di Erasmus, ma oltre oceano).
La meta selezionata non era particolarmente avventurosa: Montréal, in Québec. Il mio obiettivo era chiaro: capire come fare una buona tesi di laurea.
Mi iscrissi quindi ad un corso di epistemologia e metodologia della ricerca sociale offerto dall’Université de Montréal. Un giorno, dopo alcune lezioni, l’insegnante – una giovane ricercatrice di origine russa – ci propose un esercizio: come dimostrare empiricamente la veridicità delle leggi di Duverger?
Le leggi di Duverger sono generalizzazioni empiriche riguardanti gli effetti dei sistemi elettorali sui sistemi partitici. Banalizzando, rilevano la sostanziale coincidenza tra scrutinio maggioritario a un solo turno e bipartitismo e tra rappresentanza proporzionale e multipartitismo. La mia risposta fu tanto semplice quanto banale: «Andiamo a vedere se, nei sistemi che sono passati dal maggioritario al proporzionale, il sistema bipartitico è divenuto di lì a poco multipartitico e viceversa». La reazione fu una sonora sghignazzata seguita da un: «Dimenticavo che tu sei italiana! Guarda che, nel resto del mondo, la legge elettorale non si cambia altrettanto spesso!».
Era il 2006 ed era da pochi mesi entrata in vigore la Legge Calderoli, il cosiddetto Porcellum. Da allora dibattiti, proposte di riforma, riforme vere e proprie e bocciature della Corte costituzionale non hanno mai cessato di riempire le pagine dei giornali. E lo fanno, anche se non (ancora) in prima pagina, anche in questi giorni. La domanda che però in molti si pongono è sempre la stessa: ne abbiamo davvero bisogno? Serve davvero un’altra legge elettorale?
La risposta è: dipende.
Dipende da quale legge e da quali obiettivi si vogliono perseguire. Quello che dovrebbe fare una buona legge elettorale è dare potere agli elettori. L’attuale legge, legando il voto nella parte maggioritaria al voto nella parte proporzionale (caratteristica che la rende assai diversa dal sistema tedesco), non lo fa. L’elettore non ha il potere di scegliere il proprio rappresentante nel collegio e di far valere nei suoi confronti il principio democratico dell’accountability. Dall’altra parte, anche il candidato all’uninominale ha ristrette possibilità di far valere il proprio peso verso il partito che lo candida e quindi ha scarsi incentivi ad essere responsive verso il proprio elettorato.
Queste, a mio avviso, sono le due buone ragioni per riformare, nuovamente, la legge elettorale. Non, come invece resta al centro del dibattito, la chimera della governabilità. Governabilità che dipende (anche) da altri aspetti del sistema politico: dalla strutturazione del sistema dei partiti, dai regolamenti parlamentari, dalla forma di governo, da eventuali strumenti che rafforzino l’esecutivo ed il primo ministro (uno di questi è il meccanismo della sfiducia costruttiva, che però non ha impedito alla Spagna di recarsi alle urne due volte in poco più di sei mesi, sia tra il 2015 e il 2016, sia nel corso del 2019).
La proposta di cui si parla in questi giorni, una trita e ritrita ‘proporzionale corretta’ (sembra un caffè…), rischia di non risolvere, o forse anche di aggravare, i problemi del nostro sistema politico. Qualsiasi riforma, se continuerà a non fornire agli elettori chiari strumenti per far valere l’accountability democratica e, agli eletti, leve di autonomia verso il proprio partito, sarà una riforma sbagliata, come, ahi noi, ve ne sono state fin troppe…
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