Negli ultimi anni la educazione civica ha conosciuto un revival nel discorso pubblico, ciò che ha incluso l’approvazione di una legge, varata anche sulla spinta di una proposta di iniziativa popolare promossa dall’associazione dei comuni. Il tema è accattivante a sinistra come a destra, specialmente in un mondo in cui la forza dei legami sociali si è indebolita e la nostalgia per i tempi andati si fa sentire. Personalmente, tuttavia, ho molti dubbi sul modo in cui il tema viene trattato. E questo non perché, magari perché sono nato e vivo a Roma, mi è impossibile riconoscere nei comuni dei maestri di civismo; ma perché sull’argomento ho condotto una ricerca qualche mese fa e penso quindi di poter dire la mia con un aggancio con la realtà che, duole dirlo, spesso manca.
Ecco un primo paradosso: tutti parlano della educazione civica, ma sono in pochi a sapere di che si tratta. È emblematica al riguardo la frase che si ascolta e si legge spesso negli ultimi tempi, secondo cui bisogna «reintrodurre» la educazione civica nelle scuole (lo stesso titolo della nuova legge richiama il tema). Il piccolo particolare è che questa materia non è mai stata espunta dai programmi scolastici, benché abbia cambiato nome e fisionomia numerose volte. Ed è quindi evidente che non si può (re)introdurre qualcosa che c’è già: chi lo dice dà una cattiva lezione proprio di educazione civica. Del resto, chiunque cerchi di informarsi presso il ministero competente o i suoi uffici territoriali, deve constatare che neanche le autorità di governo sanno che cosa precisamente succede nelle scuole. Nella ricerca che ho menzionato, con i miei colleghi di Fondaca abbiamo alla fine dovuto costruire un campione di scuole secondarie superiori e censire i progetti realizzati e documentati nei siti degli istituti. Ma si tratta di progetti extracurricolari, peraltro anche ottimi e con distinguibili «effetti di apprendimento». Di quello che si fa in classe, invece, nessuno sa niente. Ma tutti ne parlano come se, invece, lo sapessero.
Leggendo o ascoltando meglio si capisce che ciò che si vuole introdurre è una valutazione del profitto su questa materia. E ciò è plausibile, ma incontra un altro paradosso. Si tratta del fatto che, mentre si vuole rafforzare (o «reintrodurre») la educazione civica per porre rimedio alla crisi della cittadinanza, per effetto di questa stessa crisi non è più chiaro in cosa la cittadinanza consista e quindi che cosa dovrebbe essere insegnato. Non è un problema italiano: la crisi del modello canonico di cittadinanza è ovunque, e la difficoltà di definire in cosa consista la educazione civica, che ne consegue, si registra dappertutto. Si vedano al proposito i rapporti periodici di Euryidice e la difficoltà definitoria ma anche didattica che documentano. È per effetto di questa distretta che, nel corso degli anni, la educazione civica si è gonfiata di contenuti, dalla educazione stradale a quella sessuale; e la nuova legge, che ha fatto un cammino trionfale in parlamento, aggraverà la situazione, visto che tutte le forze politiche – per una volta in pratica unanimi – hanno ciascuna aggiunto i propri temi: avremo così la storia della bandiera italiana, l’ambiente, l’Europa e via elencando. Direi una perfetta prova del fatto che non si sa di che cosa si stia parlando.
E per finire, al fondo di questo revival dell’educazione civica secondo me c’è un altro tema. Esso si nasconde dietro alla pressante richiesta che la scuola si faccia carico dello scarso senso civico dei ragazzi. Lo spirito della richiesta, qualche volta espresso proprio in questi termini, è: inchiodate i ragazzi ai banchi e insegnate loro le buone maniere. Ma questa aspettativa – che sa tanto di alibi per centrali formative come la famiglia nonché per le classi dirigenti del paese – si scontra con un altro problema, questa volta strutturale. Chiunque studi la cittadinanza e la sua storia constaterà facilmente che la educazione alla cittadinanza oscilla tra l’idea di formare un bravo cittadino e quella di formare una persona buona. Ma le due cose non vanno d’accordo perché si tratta di qualità diverse: lo spiegavano già Aristotele e Tommaso d’Aquino. Per dirla con il libro Cuore (una lettura che sconsiglio: angosciante da piccoli e indigesta da grandi, con il dovuto rispetto s’intende), non è detto che l’orribile Franti, archetipo del bullo scolastico, da grande non sia morto sulle barricate della lotta per libertà e la democrazia; e che, al contrario, l’ottimo Garrone abbia mai votato alle elezioni. E quindi? Non c’è lo spazio qui per rispondere alla domanda – che peraltro qualche risposta ce l’ha – ma porsi il problema in termini di realtà e non di wishful thinking sarebbe già un bel passo avanti.
Dino Cofrancesco dice
«Il libro Cuore», scrive Moro, è «una lettura che sconsiglio: angosciante da piccoli e indigesta da grandi, con il dovuto rispetto s’intende». Un giudizio profondo e meditato: in linea con la Chiesa, che ha sempre diffidato di un libro in cui non si incontra nessun prete e non si descrive nessun rito religioso, e….col fascismo, che detestava un patriottismo senza esibizione di muscoli e aneliti imperiali. Nonostante il fascismo e la Chiesa, però, intere generazioni (senza esserne costretti) hanno letto Cuore e lo tengono caro (tra quegli ingenuoni ci sono anch’io).«Ci sarà pure una ragione!» come disse Eugenio Montale, riflettendo sulla fama di un letterato che non godeva della sua stima.