Con le elezioni il popolo sceglie. Con l’iniziativa legislativa il popolo propone. Con la revoca il popolo scalza. Con il referendum il popolo decide. Scegliere i rappresentanti, mai, nelle democrazie parlamentari, i governanti; redigere un disegno di legge da sottoporre al Parlamento; mandare a casa e sostituire i rappresentanti sono tutti importanti poteri nelle mani del popolo. Però, il referendum è il più immediato, più incisivo, ma anche più controverso di questi poteri. Infatti, sono sempre stati molti coloro che sostengono che i referendum mal si conciliano con le democrazie parlamentari, nelle quali il potere di fare e disfare le leggi deve rimanere nelle mani e nelle menti dei rappresentanti eletti, poiché la maggioranza degli elettori, la maggioranza del tempo e per la maggioranza delle scelte, anche referendarie, non è abbastanza interessata, non è abbastanza informata, non è abbastanza partecipante.
Naturalmente, spinta agli estremi questa critica metterebbe in questione persino la possibilità stessa della democrazia se non che i critici replicano che i rappresentanti eletti ne sanno di più e sono maggiormente in grado di pervenire a soluzioni concordate migliori per tutti. Almeno su un punto vi è accordo: il referendum è uno strumento che consente ai cittadini di mettere sotto pressione i rappresentanti e, se del caso, per alcune decisioni, dimostrare che non sono condivise e debbono essere cambiate.
Per cancellare le decisioni prese dal Parlamento, ovvero da una maggioranza parlamentare, i Costituenti hanno stabilito che è necessario che la maggioranza assoluta si rechi alle urne, il cosiddetto quorum, proprio per bilanciare la maggioranza parlamentare. L’assenza di quorum nel caso dei referendum costituzionali è spiegabile con la convinzione dei Costituenti che è necessario premiare coloro fra i cittadini che, interessati e informati, si recano alle urne. Gli altri, gli astensionisti, evidentemente, pensano che riforme o no la loro vita non cambierà. Dunque, non bisogna consentire loro di bloccare le riforme. Quanto agli attori che innescano le procedure referendarie, i Costituenti hanno escluso il governo. Non hanno neppure immaginato escamotage come il o i partiti di governo che lanciano un processo costoso, qualche volta ai limiti del plebiscitarismo, se non oltre, per avere una conferma popolare di riforme approvate dalla loro maggioranza in Parlamento. Per il referendum abrogativo debbono essere 500 mila cittadini ad apporre le loro firme per ottenerlo. Per i referendum costituzionali, ai quali non si attaglia affatto l’aggettivazione “confermativi”, poiché dovrebbero essere correttamente chiesti da coloro che intendono bocciare le riforme fatte, quindi, più correttamente, “oppositivi”, possono essere 500 mila lettori (in rappresentanza di un’opinione pubblica attenta); 1/5 dei parlamentari (persone inevitabilmente informate dei fatti, dei malfatti e dei misfatti); cinque consigli regionali.
Ricorrente è la critica ai referendum italiani, la cui breve storia cominciò nel 1970-74: troppi referendum, inutili e troppo spesso falliti (vale a dire fatti fallire dai dirigenti dei partiti). Di recente, nella aspra campagna per il referendum costituzionale ha fatto la sua comparsa una critica che si vorrebbe antipopulista (ma, forse, è antipopolare con connotazioni vagamente elitiste). I referendum sono pericolosissimi poiché consentono al popolo di esprimere il loro disagio, il loro dissenso, il loro disgusto nei confronti delle elite. Insomma, il NO parte avvantaggiato. Una sintetica disamina dei dati italiani consente di smentire la tesi espressa da Aldo Cazzullo nell’editoriale “Referendum, una trappola per le èlite” (Corriere della Sera, 5 ottobre). Dal maggio 1974 all’aprile 2016 si sono tenuti in Italia 67 referendum abrogativi. I “sì” hanno vinto 23 volte; i “no” 16 volte. In ventisette dei ventotto casi nei quali non è stato raggiunto il quorum, hanno, inutilmente, prevalso i “sì”; una sola volta il non-successo ha arriso ai no.
Prima del referendum costituzionale indetto per il 4 dicembre, si sono tenuti due referendum costituzionali . Nell’ottobre 2001, il centro-sinistra si è fatto confermare, senza che ne esistesse nessuna necessità, la sua mediocre riforma del Titolo V della Costituzione, adesso ripudiata persino da uno dei suoi estensori. Nel giugno 2006, il centro-sinistra versione Unione guidata da Prodi ha ottenuto l’abrogazione della Grande Riforma di Berlusconi e Fini. Nel primo caso, affluenza 34 per cento, vinsero i “sì”; nel secondo, affluenza 52 per cento, la vittoria fu del “no”. Ci fu anche un referendum consultivo per conferire poteri costituenti al Parlamento Europeo. Tenutosi nel 1989 in concomitanza con le elezioni europee, la partecipazione fu elevatissima: 80,8 per cento. I favorevoli, “si” furono l’88 per cento. Insomma, l’Italia, contraddicendo Cazzullo & Bad Company, dimostra di essere piuttosto il “bel paese” delle genti di Dante che fanno suonare il “sì”. La mia non è una previsione. E’ la smentita di una tesi politicamente orientata. Piaccia o non piaccia, gli elettori si formano un’opinione e poi decidono conoscendo perfettamente la differenza fra “sì” e “no”.
Viola dice
un’illustrazione nitida, contestualizzata, documentata. Grazie a Gianfranco Pasquino e a Paradoxaforum