Un commento di David Brooks sul «NYT» il 6 ottobre u.s. (The Triumph of the Ukrainian Idea) ha destato eco in Italia ed è stato ripreso da molti giornali, tra i più recenti «Huffington Post» per mano di Pierluigi Battista (Il ‘nazionalismo liberale’ del Risorgimento ucraino contro il dispotismo di Putin, 12 ottobre). Tralasciando l’enfasi posta da Battista e il suo collegamento con il Risorgimento italiano, l’argomento di Brooks parte da un problema teorico-filosofico cruciale, ma credo ne offra uno svolgimento abbastanza difettoso. Questo problema è il rapporto tra valori-fini e ‘ordine politico’.
Brooks si lascia trasportare dalla retorica di una «idea superiore», che spinge «a combattere così accanitamente» e che «ispira i popoli dell’Occidente a sostenere l’Ucraina fino in fondo». Questa «idea» – dice Brooks – «di fatto sono due idee appiccicate l’una a l’altra», liberalismo e nazionalismo, il che, come candidamente riconosciuto dallo stesso Brooks, stride con l’evidenza: «Il liberalismo ha a che fare con la libertà di scelta, la diversità e l’autonomia individuale. Il nazionalismo invece è primordiale, xenofobo, tribale, aggressivo ed escludente»
Brooks si cava da questo impiccio con un sofisma molto tipico. Se sono gentiluomo (o gentildonna), incline ai sentimenti liberali, illuminati e libertari, dico patria (con Voltaire) o comunità o appartenenza; se sono aggressivo e arrogante dico nazione o etnia o clan. Così David Brooks sostiene apertamente che Vladimir Putin e Donald Trump sono «cattivi» e retrogradi, quindi «nazionalisti illiberali», xenofobi e autoritari, mentre Zelensky è «buono», cioè un «nazionalista liberale», progressista, inclusivo, rispettoso della legalità e non incline alla personalizzazione del potere. Il nazionalismo buono si può coniugare con la democrazia e il liberalismo, quello cattivo no. Troppo comodo.
Si tende ad usare molte parole come fossero scambiabili: nazione, popolo, gruppo, etnia, clan, patria, comunità, appartenenza (quest’ultima, la parola che incidentalmente usa Brooks in un passaggio). Suggerisco, per argomento, di sbarazzarci di tutte e di usare un concetto neutro quale «identità etico-sociale», con ciò intendendo il fatto che dentro una rete di relazioni sociali, i soggetti sentono la necessità di riconoscere nell’altro i propri valori, usi e costumi. Partendo da questo, che è un semplice assunto indimostrato, nessuno vuol negare che una qualche misura d’identificazione etico-sociale deve esistere in qualsiasi regime politico, pena la sua integrità e sopravvivenza. Su questo si può pienamente concordare con tutti i profondi interventi di Dino Cofrancesco in questo forum in tempi recenti. Qui possiamo però innestare quattro riflessioni apodittiche.
1. Identificazioni e identità non sono primordiali né innate, sono piuttosto l’esito di interazioni e relazioni sociali continuative nel tempo, perché solo se il soggetto vede e interagisce con l’altro può in esso identificarsi o percepirlo come alieno. Naturalmente, una volta ‘fondate’ le identificazioni circolano, possono essere ‘comunicate’ e usate, ad esse siamo socializzati. Questo truismo ha un enorme impatto sulla concezione democratica. Infatti, la democrazia è per definizione un regime politico aperto e basato sul principio dell’uguaglianza piena tra i soggetti. Gli stati nazionali creano artatamente identità escludenti di tipo culturale, etnico e linguistico e ci socializzano a credere che siano sempre esistite e che dobbiamo difenderle. Ma se quel particolare insieme di istituzioni che chiamiamo stato ha creato ciò che chiamiamo nazione, patria o comunità e un’ideologia su queste entità basata (il nazionalismo), cosa impedisce di immaginare ‘comunità di destino’ diverse? Cosa impedisce di accettare che la composizione di queste comunità possa variare? La democrazia è il regime che più ha mostrato di plasmare nei secoli queste identità, di crearne sempre nuove, è un regime politico che mal tollera l’esclusione di qualcuno.
2. I valori sui quali si costruiscono le identificazioni etico-sociali non sono dati a priori. Questo secondo truismo è un’estensione del precedente. Ad un estremo abbiamo l’universalismo (esistono individui astratti, tutti uguali), all’opposto il particolarismo (nessun individuo è riconducibile all’altro: ‘noi’ siamo diversi da ‘loro’). La gamma di valori che si estende tra universalismo e particolarismo è infinita, se si vuole. Ancora, possiamo notare che la democrazia tende al polo universalistico in base al suo principio fondante richiamato dell’uguaglianza tra gli individui, mentre il nazionalismo tende al particolarismo, perché resta un principio ‘escludente’.
3. L’istituzionalizzazione politica modifica il modello d’integrazione e quindi l’identificazione etico-sociale. I regimi politici molto istituzionalizzati, che cioè hanno regole, procedure, ruoli d’autorità fissati e controllati pro tempore, e tutto questo hanno relativamente stabilizzato nel tempo, generano negli individui una forma di religione civile – tema ben noto – nel quale l’oggetto di venerazione sono appunto le istituzioni stesse più che le persone che le occupano pro tempore. La democrazia è il regime politico che più ha sviluppato l’istituzionalizzazione del suo assetto: qui tutto è regole, procedure, statuti, istituzioni, organizzazioni formalizzate. Le identificazioni collettive in democrazia tendono anch’esse verso queste astrazioni, chiunque può occupare quei ruoli e svolgere le funzioni ad essi collegate. Per il nazionalismo invece non è così, solo i ‘nostri’ possono occupare quei ruoli, il nazionalismo ha inoltre bisogno di miti ed eroi in carne ed ossa. Il nazionalismo è un principio nocivo alla democrazia perché è de-istituzionalizzante.
4. La democrazia come regime politico è compatibile con più regimi socio-economici. Questo argomento non necessita di grande sviluppo, rinvio a Socialismo, capitalismo e democrazia di Schumpeter. Ragionando per opposti, come fin qua fatto, possiamo però osservare che né l’assetto socialista («a ciascuno secondo i suoi bisogni») né quello liberale («a ciascuno secondo i suoi meriti») ammettono principi d’esclusione, come quello nazionale, comunitario, tribale, etnico o linguistico. Per il socialismo, chiunque abbia bisogno riceve; per il liberalismo, chiunque ottenga è riconosciuto. Socialismo e liberalismo sono due dottrine dell’illuminismo, sono due diverse declinazioni dell’universalismo non del particolarismo. Il nazionalismo nasce come reazione al socialismo e al liberalismo.
Ergo, con buona pace di Brooks, la democrazia (e il liberalismo) continuano ad essere poco conciliabili con il nazionalismo. Gli ucraini stanno difendendo la loro «comunità di destino», per una scelta politica importante e legittima, ma non abbiamo bisogno di alcuna fondazione ideologica nuova per giustificare quella scelta. Abbiamo già avuto il nazional-socialismo, risparmiateci il nazional-liberalismo.

dino cofrancesco dice
C’è sempre da imparare dagli scritti di Giuseppe Ieraci, uno scienziato politico ‘all’antica’ attento alla storia e all’etica politica più che alla tecnicalità che ormai domina accademicamente nella sua disciplina.
Vorrei, però, porgli tre quesiti:
1.“Socialismo e liberalismo—scrive– sono due dottrine dell’illuminismo, sono due diverse declina-zioni dell’universalismo non del particolarismo. Il nazionalismo nasce come reazione al socialismo e al liberalismo”. Questo significa che solo l’Illuminismo produce valori ‘umani’ e rispettabili e che al di fuori di essi si spalanca l’abisso del tribalismo e della violenza? Come lettore di Isaiah Berlin non ne sono convinto.
2.Nazionalismo, nel vecchio dizionario ideologico, è degenerazione di una cosa buona–come per i liberali e per i conservatori, socialismo è degenerazione di ‘socialità’ (solidarietà sociale). Naziona-lismo e ’principio di nazionalità’ sono la stessa cosa? E quindi Mazzini (la cui eredità spirituale, peraltro, è ambigua, come dimostrano gli studi non conformisti di Giovanni Belardelli) andrebbe considerato come un protonazionalista? E qualora al principio di nazionalità venisse riconosciuto un valore positivo—sulla scia, per non parlar d’altri, di Raymond Aron e di François Furet, Rosario Romeo e Renzo De Felice—non dovremmo riconoscere che anch’esso ‘esclude’ e pone’ confini’?
3.L’enfasi di Ieraci sulle ‘istituzioni’ fa venire in mente il patriottismo costituzionale di Jurgen Habermas se non le utopie del ‘republicanism’ e le omelie di Maurizio Viroli. Ma scienziati politici come Gian Enrico Rusconi—non certo un conservatore– non avevano dimostrato l’inconsistenza di una legittimità democratica fondata sulla sola dimensione Gesellschaft ed escludente la dimensione Gemeinschaft?
Sulle tesi di David Brooks (The Triumph of the Ukrainian Idea) «NYT» il 6 ottobre u.s. non credo valga la pena soffermarsi. Presentare Zelensky come campione di democrazia liberale fa parte dell’universo retorico indigesto sia a me che a Ieraci.
Giuseppe IERACI dice
Carissimo Dino Cofrancesco:
1. Questo significa che solo l’Illuminismo produce valori ‘umani’ e rispettabili e che al di fuori di essi si spalanca l’abisso del tribalismo e della violenza?
No, non l’ho detto, né lo penso minimamente, tra l’altro come “non cognitivista etico” non saprei scindere tra valori ‘umani’ e rispettabili e valori che tali non solo. I valori tutti pari sono sul piano etico e le conseguenze che essi producono (nel dirigere l’azione) possono apparire a chi “buone”, a chi “cattive”. Al socialista appare buono distribuire a tutti; al nazionalista appare buono riservare ai propri. Tutte e due le opzioni hanno (weberianamente) il “senso della bontà” per chi li compie. Dunque, la mia propensione – credo si sia capito – per l’universalismo (distribuire a tutti) non è minimamente superiore o preferibile a quella diversa di chi propenda per il particolarismo (riservare a sé). Aggiungo – e scagliate pure le prime pietre – che tutti nella pratica – anche io, beninteso – siamo inevitabilmente talvolta universalisti, talaltra particolaristi.
2. Nazionalismo e ’principio di nazionalità’ sono la stessa cosa?
Temo di sì, così a me pare, ma potrei sbagliarmi. ‘Nazionalismo’ e ‘principio di nazionalità’ sono pur sempre declinazioni della ‘ideologia della nazione’, della quale si serve lo Stato per giustificare se stesso e la sua azione di potere (v. gli scritti di M. Albertini e F. Goio). Intendiamoci, non ho nulla contro gli Stati né contro la loro “azione di potere”. Non sono un anarchico. Ciò detto – e come ho ammesso e scritto nel post – una comunità che non si senta “comunità” difficilmente riesce a sopravvivere o se lo fa soffre di asfissia (vedi l’UE oggi). Di sentirci “nazione” abbiamo bisogno.
3. L’enfasi di Ieraci sulle ‘istituzioni’ fa venire in mente il patriottismo costituzionale di Jurgen Habermas se non le utopie del ‘republicanism’ e le omelie di Maurizio Viroli.
No, non mi riconosco in Habermas, né – tanto meno – nelle prediche di Viroli o nelle tiritere del “repubblicanesimo”.
Semplicemente: per me le istituzioni “servono” alla “gestione” della lotta politica. Attribuiscono ad alcuni potere, ad altri lo tolgono. I meccanismi sui quali riposano possono essere interiorizzati ed accettati dagli attori, ora inclusi, ora esclusi dal potere. Questa “interiorizzazione” e questa “accettazione” abbassa i costi della politica. Tutto qua.
Ma come a tutti i mali minori – le istituzioni sono il “male minore” della lotta politica -, ci si affezione un po’ ai meccanismi nei quali siamo “incastrati”. L’alternativa alla politica “istituzionalizzata” è il conflitto aperto in senso hobbesiano: la guerra, il mettere a morte l’avversario o ridurlo in cattività e all’impotenza per conquistare il suo il suo posto.
Nei confronti delle “istituzioni”, quando queste funzionano, l’attore politico soffre una specie di “sindrome di Stoccolma”: le difende a spada tratta, si convince che siano “giuste” e “intangibili”, perché sono le “istituzioni” che gli garantiscono “salva la vita” quando perde – sto ragionando per iperbole, mi si comprenda.
Così, anche la giustificazione delle istituzioni (quella di Habermas, Viroli and Co. intendo) è una “falsa coscienza” dei rapporti politici. Né abbiamo bisogno nelle “comunità politiche”, come del “sentimento nazionale”. Credo che la “falsa coscienza istituzionale” sia importante tanto quanto la “falsa coscienza nazionale”.
Davvero grazie a Dino Cofrancesco per la sua paziente lettura e grazie per i commenti ficcanti.
Patrick Karlsen dice
Bell’intervento, stimolante e convincente.
Mi invita a ragionare soprattutto questa frase: “Il nazionalismo nasce come reazione al socialismo e al liberalismo.”
Non so… i legami fra nazionalismo e liberalismo mi sembrano storicamente troppo forti, entrambe ideologie di una borghesia in ascesa che domanda libertà e proietta i suoi interessi e bisogni sull’intero corpo sociale, universalizzandoli nell’idea di nazione. Direi piuttosto che il socialismo è nato in reazione al liberalismo (a cui contrappone una diversa concezione dell’uguaglianza – in questo è vero che sono figli “litigiosi” dell’Illuminismo) e al nazionalismo (con cui però avrà ben modo di adattarsi e di ibridarsi nel corso del tempo).
Giuseppe IERACI dice
Sono d’accordo con Patrick Karlsen, il quale però guarda il punto dal versante storico, cioè guarda a cosa è accaduto nel mondo. E nell’ottocento quella borghesia di cui Karlsen parla ha effettivamente coniugato la sua richiesta di “protezione d’interessi economici” a una particolare ideologia statale, il nazionalismo. Questa particolare ideologia era (è) perfettamente funzionale alla chiusura e alla protezione d’interessi economici e politici di classi specifiche (si veda la lettura di questo nesso offerta dal sistema di economia nazionale teorizzato da F. List). Ho in mente, ad esempio, il collegamento tra la grande industria italiana e il fascismo descritto – se non ricordo male – decenni fa da R. Sarti (La grande industria) e da P. Melograni (Gli industriali e Mussolini)…solo suggestioni da lontane letture.
Ma io operavo solo collegamenti logico-formali, ovverosia filosofici, non storico-empirici. Aggiungo soltanto che un assetto di mercato tendenzialmente libero è perfettamente compatibile con un regime autocratico, spesso chiuso – per scelta o per necessità – in modo autarchico verso l’esterno – questo credo sia stato proprio il caso del fascismo italiano, forse oggi della Russia putiniana.