La testimonianza di uno storico
La prima volta che parlai con qualcuno di Silvio Berlusconi, la ricordo ancora. Fu davanti alla Croce Verde, nella mia città. Passavo di lì in bicicletta con i miei figli bambinelli e incontrai Sergio, che saliva in auto con alcuni amici. «Dove sei diretto?», gli chiesi. «Andiamo a San Siro a vedere il Milan: la semifinale di Coppa dei Campioni». Con la solita supponenza ironizzai sul fatto che lui, comunista, fosse tifoso della squadra di Berlusconi. Sergio mi rispose ridendo: «Ci ha riportato a questi livelli! Che ci vuoi fare?». Aveva ovviamente ragione lui. Dev’essere stato, secondo i miei calcoli, il 4 aprile 1990. Per me Berlusconi era poco più che un nome: non guardavo le televisioni commerciali, disdegnavo i loro programmi, non seguivo il calcio.
Cominciò a diventare qualcuno grazie alla nascente passione calcistica dei miei figli, che intanto stavano crescendo: il loro tifo per il Milan divenne il mio, invertendo la tradizione che vede il tifo trasmesso di padre in figlio. Diventai milanista per condivisione: il primo ricordo di questa nuova fase, durata fino a oggi, fu la grande finale di Atene col Barcellona: era il 18 maggio 1994. Nel pomeriggio comprammo la bandiera, la sera dopo la vittoria facemmo il carosello con la vecchia Ritmo bianca. Ma intanto era successo un terremoto nella politica italiana e il presidente del Milan era diventato anche presidente del consiglio.
Negli anni Ottanta, avevo votato sempre per il partito repubblicano, una scelta un po’ elitaria, di matrice culturale più che politica. Avevo smesso di leggere «la Repubblica» nel 1985 ed ero passato alla «Stampa», più asettica e meno militante. Con Mani Pulite il PRI era sparito, come il PSI e il PLI: per chi dovevo votare alle imminenti elezioni? Di una cosa ero certo: non dovevano vincere coloro che avevano sempre avuto torto durante tutta la guerra fredda e che ora rischiavano di prendere il potere senza colpo ferire. E la DC, poi, non l’avevo mai votata! Ricordo una sera d’inverno, era il 26 gennaio 1994: tutta la famigliola cenava in cucina di fronte al TG5. Venne fuori che Berlusconi scendeva in politica e fondava un nuovo partito, che si rivolgeva all’elettorato degli italiani rimasti senza rappresentanza. «Ecco per chi voterò!» – gridai in tono di sfida.
Tutti, a cominciare da mia moglie, mi dissero che ero matto: tutte le volte che cercavo di parlarne con qualcuno, costui strabuzzava gli occhi e credeva che scherzassi. Così, un po’ per celia, un po’ pensando che fosse una cosa di secondaria importanza, sono stato un berlusconiano della prim’ora, del 27 marzo 1994. In assoluta solitudine: nessuno dei miei familiari, della mia cerchia di amici, tanto meno dei miei colleghi, fece quella scelta, anzi l’avrebbe giudicata (se l’avessero conosciuta, perché io imparai presto a dissimulare) gravissima e indegna. Gli storici talora discettano sulle scelte che determinano la vita degli uomini: io la feci del tutto spensieratamente, una specie di beau geste che mi sottraeva alla seriosità di chi mi circondava.
Ma il peggio fu dopo l’imprevista vittoria del centro-destra, perché tutto il mio mondo fu travolto da uno choc che lo tramortì e lo inviperì. Ricordo nei giorni successivi il brusìo animalesco della mensa della Scuola Normale: non si parlava d’altro. Divenne per anni una specie di convenzione sociale, quando ci si incontrava, iniziare con una generale deprecatio temporum, ammiccare agli ultimi fasti del berlusconismo imperante, preannunziare esilî. Non erano discorsi originali: venivano immancabilmente dalla lettura della Repubblica e di giornali consimili, che a lungo hanno ossessivamente zumato sulle battute, le cravatte, le chitarre, le gaffe del Cavaliere (come veniva chiamato, finché Giorgio Napolitano non gli tolse il titolo di Cavaliere del lavoro): non si parlava quasi mai di politica, ma di rivolta morale, del dovere di resistere, del ‘fascismo eterno’ a cui eravamo condannati. Praestat tacere del discredito all’estero che i miei colleghi, ovviamente ‘internazionalizzati’, hanno coltivato per un ventennio, creando un circuito vizioso fra l’informazione internazionale e le terrazze romane e milanesi o le accademie bolognesi.
L’antiberlusconismo intellettuale e accademico è stata una delle pagine più squallide di questo ceto di per sé pronto a tutte le viltà e a tutti gli opportunismi, come la storia ampiamente dimostra: non perché non si potesse essere contro Berlusconi (ci mancherebbe altro!), ma per i toni, le ossessioni, il disprezzo, lo snobismo ostentato, l’ossessione, la monomania. Ho a lungo fantasticato su una nuova versione dell’impareggiabile film di Lina Wertmüller Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto: la sciura milanese (ah! Mariangela Melato) sarebbe diventata una docente della Johns Hopkins bolognese, antiberlusconiana e interista (ovviamente), e il grande Giannini avrebbe incarnato un bauscia della Curva Sud, contento (eccome!) che Silvio c’è.
In un primo momento, rimasi profondamente stupito: che cosa c’era stato di tragico nel mio voto? Avevo sbagliato? Mi ero mosso d’impulso? Che cosa mi ci aveva predisposto? Scrissi per capirlo una breve autobiografia politica, ovviamente rimasta inedita, ma che ancora conservo, che portai avanti per intervalla operis dall’estate al dicembre 1994. Quando la conclusi, il primo governo Berlusconi stava per cadere: il discorso sembrava finito. Ma, con qualche opportuno aggiustamento, concludevo che la mia scelta era stata plausibile: paradossalmente il mio ‘berlusconismo’ cominciò allora, lo sforzo cioè di dare una base teorica e storica a un voto nato d’impulso e quasi per ripicca. Qui nasce un itinerario che mi avrebbe portato alla conoscenza prima di Ernesto Galli della Loggia e dei suoi collaboratori, poi di Gaetano Quagliariello e di un gruppo di amici che mi hanno fatto compagnia (intellettuale in primis) per tanti anni e a cui resto profondamente grato.
Ma le cose sono più complicate, perché esiste anche una quotidianità di vita vissuta. In essa il fenomeno Berlusconi è stato, forse più di quanto si pensi, un elemento di divisione di amico da amico, di parente da parente; ha insegnato a circoscrivere gli argomenti di cui parlare al pranzo di Natale o sotto l’ombrellone, altrimenti salta tutto; a ‘mandare a quel paese’ cogli occhi, ma col sorriso sulle labbra. Tutto questo si estremizzava a Pisa e alla Scuola Normale, dove anche il silenzio era sospetto e tutto il gauchisme di vario colore si era convertito in antiberlusconismo aggressivo e militante.
In questi contesti, il sottoscritto ha adottato per anni una strategia di sopravvivenza, basata (come ammoniva Gioberti) sulla dissimulazione (stare in silenzio o non dire mai del tutto ciò che si pensa), mai sulla simulazione (dire delle bugie): la dissimulazione onesta, di cui parlava Torquato Accetto e riparlava Benedetto Croce, che è diventata per me un’abitudine fino a oggi. Ora è assolutamente normale che non si possa dire tutta la verità in tutte le circostanze, ma far diventare questo atteggiamento un costume di vita è ingiusto e fa male alla salute, psichica e fisica: è indice di una pervasiva pressione sociale, a cui uno può sottrarsi solo rompendo. E se uno rompere non vuole o non può, deve adattarsi e glissare.
Per me è stata una fatica immane che ha cambiato profondamente il mio temperamento, prima estroverso e amante della discussione, su tutto. Se con Tizio e con Caio devo per lo più tacere, se devo ascoltare i loro sfoghi di rabbia senza batter ciglio, che senso ha vederli e starci insieme? Di lì ebbe inizio, nella seconda metà degli anni 90, un ripiegamento, una tendenza a rinchiudermi nella ristretta cerchia familiare, che mia moglie spesso mi rimprovera; un pessimismo crescente sul prossimo, che talora rasenta il cinismo (di cui non a caso mi rimproverava Vivarelli, che si atteggiava a cavaliere dell’ideale). Soprattutto un distacco dall’ambiente accademico, che era il mio ambiente, verso cui ho provato una crescente insofferenza, che ha rasentato talora il disgusto: ero tra lor di un’altra specie, come diceva Saba. Eppure poi dovevo viverci, navigando a vista, evitando le insidie, parando i colpi.
Forse, anzi senz’altro, la colpa, i limiti sono stati anche miei: non sono stato capace di rispondere alla sfida, di mandare a quel paese il mondo. Non ho saputo atteggiarmi a Orazio sol contro l’Etruria tutta. Ho preferito la cerchia dei pochi, numerati amici, per lo più lontani (siano benedetti prima la posta elettronica e ora WhatsApp!).
Ma per me (e per molti italiani, penso) Berlusconi è stato anche questo: un segno di contraddizione.
Maria Zanichelli dice
Un’analisi perfetta, un racconto nel quale è impossibile non ritrovarsi.
marco dice
berlusconi ha rappresentato nel bene o nel male una grande visiione ,nel mondo del calcio tv e politica,nessuno oggi può imitarlo sia come uomo e come grande statista
Massimo Fanfani dice
Condivido in pieno le considerazioni di Roberto Pertici. Dopo il 1994, nell’ambiente universitario (e in genere conversando con le persone colte), non fu più possibile parlare di Berlusconi in modo aperto e spassionato, come di un qualsiasi altro politico. Chi non condivideva l’opinione generale era costretto a tacere, a dissimulare, oppure, se ci riusciva, a cavarsela con qualche punta ironica, perché non era possibile scalzare il compatto muro di pregiudizi che dipingevano il “Cavaliere” come il male assoluto, la sua politica mafiosa e corrotta, il suo governo come il nuovo “Regime”. Chi osava sollevare anche una sola obiezione di fronte al conformismo ideologico imperante, era subito bollato come un paria. Ricordo un docente da sempre lettore del “Giornale” che, venendo in dipartimento, doveva tenerlo ben nascosto nella mazzetta. Un altro, di cui si sospettavano simpatie berlusconiane, tenuto sistematicamente da parte. Anche su ciò che del berlusconismo non aveva rilievo politico, non si poteva discutere obiettivamente, perché su tutto gravava il medesimo stigma. Anche ora, uscito di scena il personaggio, a parte quel che ha avuto il coraggio di scrivere Pertici, non ho sentito nessuno, nell’ambiente universitario e accademico, che abbia cominciato a riconsiderarlo in modo diverso, almeno senza l’acrimonia del passato. Per avere un quadro equilibrato dell’ultimo trentennio temo dovremo aspettare gli storici del futuro.
maurizio ridolfi dice
Intrigante questa riflessione su come gli storici hanno vissuto l’avvento di Berlusconi nell’agone politico e mediatico. Il mio riflesso immediato, da tifoso calcistico che aveva guardato con comprensibile simpatia al presidente del Milan vincente, fui dapprima disorientato e poi contrariato: sospesi la mia fede milanista, che non è più ripresa. Oltre le impressioni e gli stati d’animo, occorr eora entrare nel merito. Pe ril emstiere che facciamo, sentimenti destati e interessi in gioco vanno indagati insieme.
Salvatore Prisco dice
Interessante testimonianza. Riconosco come ben descritta l’atmosfera politico-intellettuale che portava a condannare l’uomo e il momento che abbiamo attraversato (“Ah, che tempi, signora mia”, avrebbe ironizzato Arbasino, o forse Franca Valeri). Da giovane vi soggiacqui anch’io, io pure – ahimé – firmai manifesti. Ho smesso, rinsavendo, perché un uomo che pensa di essere di cultura non può “militare contro” per effetto di una pressione ambientale, altrimenti si sentirebbe escluso dal clan, però il fatto che il berlusconismo (occasione in fondo di sana laicizzazione politica di un universo intellettuale catto-comunista insopportabile) abbia “tolto il tappo” alla bottiglia in cui gli Italiani avevano riversato e confinato la loro voglia di essere “normali”, senza essere giudicati male col sopracciglio alzato, non toglie che io abbia continuato a considerare grossolani i nuovi tempi incarnati dal Cavaliere.
Detto con rispetto per chi non c’è più: non c’era da temere Berlusconi in se stesso, ma la parte di berlusconismo che è in tutti noi.
raffaella gherardi dice
Il lucido intervento dell’amico R. Pertici mi ha richiamato alla memoria il bellissimo film di von DonnersmarcK “Le vite degli altri” (2006) , descrizione perfetta della tetra atmosfera politico culturale della DDR costellata di spie della STASI. Sinceramente non mi ero mai accorta di vivere in un’atmosfera del genere nel nostro Paese, tanto da dover ricorrere, per chi opera nella istituzioni culturali e universitarie, addirittura a “simulazione” “dissimulazione” e quant’altro nell’era berlusconiana. Siccome poi non ho mai frequentato nè le “terrazze romane o milanesi” né le “accademie bolognesi” (benché io sia bolognese doc. anche quanto a carriera universitaria e socio effsoettivo della “Accademia delle scienze” ma non penso che ci si riferisca a questa settecentesca marsiliana Accademia) il significato del discorso mi sfugge ancora di più.
Maurizio Griffo dice
Faccio una chiosa tutta politica alla riflessione di Pertici, che è una testimonianza su cui riflettere: in questo trentennio la sinistra italiana ha sopravvalutato il “pericolo” Berlusconi e terribilmente sottovalutato il pericolo (senza virgolette) costituito dalla Lega
Dino Cofrancesco dice
Testimonianza non poco significativa quella dell’amico Roberto. Più o meno si tratta di esperienze che ho fatto anch’io. Se all’Università o in un salotto buono della borghesia o in associazioni e circoli culturali vari, dicevo di aver votato per Berlusconi (che peraltro non ho mai amato) venivo guardato come un selvaggio con gli anelli al naso e la sveglia a tracolla..
Massimo Negri dice
Per me e’ valso anche all’estero con colleghi e amici di vari paesi europei (non riconducibili allo snobismo di sinistra italiano), gente che conosceva l’ Amaca con relativo eau de moi.
Leggevano pero’ i giornali…. Berlusconi era diventato parte dello stereotipo pizza mafia siesta dolce far niente ecc.
Per reazione mi cacciavo in inutili diverbi a volte dolorosi (era il mio mondo). Adesso un pochino si ripete con l’Ucraina, ma in Italia… fuori moooolto meno.
Comunque grazie per la testimonianza. Non conosco Roberto e me ne dolgo.