Riorganizzare i tempi, gli spazi, il lavoro, le città
In molti ci cimentiamo a pensare come sarà la nuova normalità, il ‘new better’. Ma già sono chiari i segni di chi non solo non vuole trarre nessuna lezione da questa terribile pandemia ma anzi vuole riaffermare proprio il peggio della vecchia normalità. Questa emergenza ha dimostrato che il rischio di un ritorno al passato per quanto riguarda le differenze di genere è elevato, e non è sufficiente il prolungamento dei congedi. Serve aprire le disponibilità a part-time volontari temporanei. Se questo Paese accetta silente che molte donne lasceranno il lavoro a causa di uno smart working mal progettato, perderemo mezzo secolo di conquiste. Siamo un paese che invecchia rapidamente e in cui crolla la natalità.
Ma procediamo con ordine. Il nostro coordinamento donne Fim Cisl, il Network Daisy, ha fatto un ottimo lavoro segnalando prontamente il problema determinato soprattutto dal prolungamento del lockdown per asili e centri estivi per i bambini e dalle difficoltà legate all’assistenza per disabili e anziani.
L’anno scolastico si concluderà senza riaprire fisicamente le scuole, malgrado il mondo dell’istruzione non si sia mai fermato. Senza una preparazione adeguata, i genitori sono stati chiamati improvvisamente a svolgere forme di lavoro remotizzato che nulla hanno a che vedere con il vero smart working, a cui si è aggiunta la cura dei figli e degli anziani.
Occuparci del dopo, significherà anche evitare il rischio affrontato già da molte famiglie, ovvero quello di rinunciare al lavoro per riuscire a conciliarlo con le esigenze della famiglia e in una condizione in cui si sacrifica la retribuzione più bassa, che nella maggior parte dei casi appartiene alle donne. Per questo è necessario che il Governo metta in campo soluzioni per la tutela del diritto al lavoro e all’indipendenza economica delle donne.
Serve progettare organizzazioni del lavoro che siano in grado di rimodulare orari di lavoro in funzione di una migliore conciliazione vita-lavoro, rendendo più flessibile l’utilizzo del part-time, trasformando premi di risultato in permessi individuali, ed ampliando l’utilizzo di ferie solidali. Bambini, donne e anziani non possono occupare un posto di secondo piano nelle priorità della classe dirigente. Bisogna studiare appositi protocolli come già stanno facendo altri paesi europei.
Ma la colpa non è imputabile allo smart working. Sono tantissimi infatti gli esempi positivi di aziende che lo hanno utilizzato in modo virtuoso, con benefici per lavoratori e produttività. Chi lo aveva adottato prima della pandemia ha, inoltre, retto molto meglio allo shock ed è da questi esempi positivi che dobbiamo partire per progettare gli accordi che firmeremo nelle aziende.
In altre si è invece trattato di una sperimentazione su larga scala di una specie particolare di smart working ‘fai da te’, nato da una situazione forzata, imposta dalla pandemia da coronavirus e non dalla necessità di innovare, ma il lavoro intelligente non ha nulla a che fare né con il telelavoro né con il lavoro d’ufficio svolto da remoto.
Il vero smart working va infatti contrattualizzato, ed è il frutto di un processo di partecipazione, dal basso, guidato non da bisogni di sicurezza e sopravvivenza ma dalla necessità di cambiamento. Si fonda su libertà, responsabilità, autonomia e fiducia e può aiutarci a costruire città policentriche con grandi benefici anche per l’ambiente.
Con Franco Amicucci e Raoul Nacamulli abbiamo elaborato un Manifesto per lo Smart Working pubblicato a marzo su «Il Sole 24 Ore», dove abbiamo formulato proposte concrete per utilizzare questa emergenza come opportunità di ‘scongelamento’ delle mentalità e delle abitudini esistenti. Che non basterà, però, se non sarà accompagnato da un cambiamento culturale.
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