Il Prof. Lessig dice giustamente che «il codice [software] è legge», poiché il software controlla chi può fare cosa, senza eccezioni. C’è un crescente malcontento nel mondo verso il controllo del codice da parte delle multinazionali, e molti stati stanno introducendo regole di «sovranità digitale» per affermare il diritto a determinare come il software vada gestito. In realtà, limitarsi alla sola critica verso i GAFAM, rischia di essere miope. Mettendo a fuoco la questione, ci si dovrebbe chiedere: «se non i GAFAM, chi dovrebbe controllare il software?»
Per il settore privato la risposta è semplice ed è spiegata chiaramente dalle bellissime motivazioni della sentenza antitrust USA vs. Columbia Steel [https://supreme.justia.com/cases/federal/us/334/495/]. Il controllo dovrebbe essere frammentato in quante più mani possibili: maggiore concorrenza.
Ma non c’è solo il codice del settore privato, c’è anche quello della Pubblica Amministrazione. Identità, voto online, firma digitale, relazioni con amministrazioni, trojan, concorsi pubblici, registri, ecc. Il controllo del software della P.A. è un potere che permette un controllo sulla vita delle persone maggiore del software privato.
Alla fine, se lo Stato, nelle sue incarnazioni di poteri esecutivo o giudiziario, dice che una persona non ha diritto a un servizio, o che essa non è degna di fiducia, la sua vita può diventare un incubo. Sarà sempre più così con l’applicazione di intelligenza artificiale e big data. Sotto quale ramo Montesquieu collocherebbe il software di eGovernment? Chi dovrebbe deciderne caratteristiche, funzioni, utenti ammessi o bloccati? Chi dovrebbe gestirlo? E che tipo di controllo, trasparenza, supervisione?
Il software di eGovernment è un altro tipo di potere dello Stato, accanto ai rami esecutivo, giudiziario e legislativo. Il suo funzionamento richiede controlli ed equilibri. Anche a causa di una situazione istituzionale che vede il Parlamento in subordine materiale rispetto all’esecutivo – sempre più sede dell’iniziativa legislativa – tendiamo a confondere lo Stato con l’esecutivo, ma l’esecutivo è solo uno dei poteri.
Possiamo fidarci, nel lungo periodo, del solo esecutivo per costruire e gestire il software di eGovernment, considerando i potenziali «capricci e pregiudizi» (per usare i termini della sentenza antitrust sopra ricordata) del ministro pro-tempore e l’opacità delle strutture verticalmente integrate nel potere esecutivo? (opacità ampiamente dimostrata dalla limitatissima efficacia del FOIA).
Il software di eGovernment dovrebbe essere centralizzato o distribuito? Una risposta inequivocabile dovrebbe esserci fornita dall’Art. 5 della Costituzione: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».
Ma è così?
Una recente sentenza della Cassazione ha anche affermato che le persone devono conoscere come funzionano gli algoritmi pubblici.
Ma è così?
Anche esaminando il ‘codice sorgente’, è possibile sapere che il software usato sia realmente quello esaminato? Chi dovrebbe avere poteri di controllo? Il controllo del codice dovrebbe essere posto sotto il ramo giudiziario, con i suoi checks and balances, ad esempio coinvolgendo i privati? O dovremmo dare al ramo legislativo poteri ispettivi e prescrittivi su sviluppo ed erogazione da parte dell’esecutivo?
La democrazia è una costruzione fragile; la supervisione sul software di eGovernment e su chi detiene tale potere è fondamentale: dobbiamo ricordare che si può entrare in un regime autoritario semplicemente votando, mentre non è altrettanto facile uscirne.
Di recente il Presidente Biden ha detto: «Democracy is more than a form of government, it’s a way of being; it’s a way of seeing the world. … Democracy is in peril as authoritarians around the world try to destroy it».
Alcune scelte in materia di software di eGovernment sono guidate da un principio di apparente efficientismo. Ma non si dovrebbe giudicare un sistema democratico solamente sull’asse dell’efficienza. Questo è un obiettivo secondario; quello principale è tutelare la libertà proteggendo il popolo dall’autoritarismo.
Ad alcuni pare che i regimi autoritari siano più efficienti e perciò gli appaiono seducenti. Vedono negativamente la necessità di faticosi compromessi tipici dei sistemi democratici; non ne colgono pregi ma solo inefficienze.
Alcuni – come di recente un senatore USA – arrivano a sostenere che la democrazia elettiva, dando il potere di scelta al popolo e non alle élite, sia una minaccia per il benessere. Ma è una illusione ottica: la competenza delle élite lascia presto il posto a manovre per il mantenimento del potere, clientelismo e familismo, se non peggio.
Dovremmo riflettere profondamente su questi temi e mettere in atto, durante i giorni di sole, anche per il software, garanzie strutturali che aiutino a prevenire i giorni bui. Altrimenti, dopo che Shoshana Zuboff ci ha svegliato dopo una dozzina d’anni di «torpore social» rivelandoci il «capitalismo della sorveglianza» che era davanti ai nostri occhi, tra alcuni anni potremmo svegliarci con un «eGovernment di sorveglianza», con la grande differenza che gli stati, al contrario delle aziende, hanno il monopolio della forza.
Nel software di eGovernment dobbiamo concepire e costruire ora le salvaguardie per mitigare il rischio di ritrovarci un giorno con un «Errore 404 – Democrazia non trovata».
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