«La caduta dei regimi totalitari significherà sentimentalmente per interi popoli l’avvento della ‘libertà’; sarà scomparso ogni freno, ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione. Sarà il trionfo delle tendenze democratiche». Sono parole di Silvio Berlusconi? Oppure di Volodymyr Zelenskyj?
Vi sorprenderete, ma si trovano nel Manifesto di Ventotene (MV). Estrapolare frasi può servire a manipolare l’intero significato di un testo, a farlo parlare come ci piace o ci conviene, che è quello che ha fatto la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. È quello che ho fatto anch’io nel mio incipit, per far apparire il MV un inno al più sfrenato liberalismo e alla «scomparsa di ogni freno», cosa che non è ovviamente.
Il MV è uno scritto complesso e visionario, un esperimento mentale ardito e ucronico (in nessun tempo, per usare il termine riscoperto da Emmanuel Carrère in un bel libro recente), cioè immagina come il mondo si sarebbe potuto trasformare alla fine della II GM. Si consideri che il MV è scritto nel 1941, gli USA non erano ancora entrati in guerra e i tedeschi avanzavano quotidianamente di decine di km in territorio sovietico (oggi si direbbe in Bielorussia e in Ucraina). Solo l’Inghilterra resisteva sotto i bombardamenti. Pensare a un’Europa liberata dal dominio dei totalitarismi in un modo diverso, che non fosse la lotta politica e militare frontale, era difficile in quell’anno. Questa la ragione che porta Spinelli e Rossi a pensare che solo un partito «rivoluzionario» sarebbe stato efficace in quella lotta: «[…] i comunisti hanno riconosciuta la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono – a differenza degli altri partiti popolari – trasformati in un movimento rigidamente disciplinato che sfrutta il mito russo per organizzare gli operai […]» (MV). Il «mito russo» e la retorica dell’organizzazione partitico-militare dei comunisti sono argomenti tipici dei resistenti italiani in quegli anni, ne parla diffusamente – prima di Spinelli – E. Lussu nella Teoria della insurrezione (1936). Lo stesso Lussu – come è noto – mise a punto un piano insurrezionale per la Sardegna, che avrebbe dovuto far cadere dall’interno il regime fascista. I servizi alleati sono pronti a sostenerlo finanziariamente e militarmente. Poi Lussu – per le ragioni che spiega in Diplomazia clandestina (1956) – desiste.
Spinelli chiarisce meglio le sue posizioni in uno scritto successivo (seconda metà del 1942), che è considerato un complemento essenziale del MV, mi riferisco a Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche (SUE), dove sostiene che nel conflitto europeo si fronteggiano la democrazia, il comunismo e il razzismo. Spinelli attribuisce a queste tre ideologie il fondamentale difetto che nessuna è capace di superare l’anarchia internazionale, perché esse fondano la loro legittimazione sulla principale causa di quella anarchia, lo stato nazionale. Per Spinelli, tanto l’economia collettivizzata che il regime capitalistico generano conflitti internazionali, la prima perché «i necessari scambi internazionali e i necessari spostamenti di lavoratori non si potrebbero svolgere in modo spontaneo, ma in base a trattative ed accordi fra le varie comunità socialiste»; il secondo perché «i contrasti economici sarebbero moltiplicati all’infinito, trasformando in questione di politica internazionale ogni rapporto commerciale con l’estero, e generando odi fra paesi ricchi di materie prime e paesi scarsamente forniti, fra paesi sovrappopolati e paesi a scarsa densità demografica» (SUE). Da qui l’ucronia dei federalisti: eliminare la causa dell’anarchia internazionale (lo stato nazionale) e stabilire un nuovo ordine internazionale: «creato in modo più conforme alle nostre esigenze fondamentali, mediante un ordinamento federale, il quale, pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua civiltà, sottragga alla sovranità di tutti gli stati associati i mezzi con cui possono far valere i loro particolarismi egoistici, crei ed amministri un corpo di leggi internazionali al quale tutti egualmente debbono essere sottomessi» (SUE). Questa cosa «in nessun tempo» Spinelli la chiama federazione europea o anche, in modo più roboante, Stati Uniti d’Europa.
Questa cosa non è l’Europa di Giorgia Meloni? Ce ne faremo una ragione, ma il paradosso è che l’Europa di oggi, che non piace a Giorgia Meloni, non piacerebbe neppure a Spinelli, seppure per ragioni diverse. Quella vorrebbe, suppongo, la restituzione di ogni prerogativa agli stati nazionali, spogliando l’UE di quel poco di sovranità che si è guadagnata; questo si è sforzato a denunciare la soluzione «funzionalista» (inteso: giustapposizione di ambiti politici d’intervento) come inappropriata e l’esito «intergovernativo» di oggi (inteso: trattativa su quegli ambiti da parte di stati sovrani che curano i loro interessi) come la fine annunciata del sogno degli Stati Uniti d’Europa. Gli stati e le nazioni ci sono ancora e sono fortissimi, il governo dell’Europa non c’è, su questo Spinelli e i federalisti concorderebbero amaramente con Meloni. Sono Meloni e i sovranisti che hanno vinto, non i federalisti.
Quali fantasmi spaventano dunque la Presidente del Consiglio e perché si è avventurata in quella sua particolare esegesi del testo? Se dovessimo tentare una spiegazione, credo che si possa far riferimento a due limiti del MV e di SUE, la selezione del metodo per tentare di far uscire l’Europa dalla linea del tempo alla quale era vincolata e l’uso del linguaggio, che entrambi possono apparire oggi eversivi e ‘pericolosi’. Non è facile sintetizzare il metodo che Spinelli ed Ernesto Rossi hanno mente, anche perché non è chiarito in modo inequivocabile nei due scritti a quali si fa riferimento. Si evince però che si vaticina una sorta di implosione del continente europeo a seguito della futura sconfitta tedesca: «Tutti i paesi cominciano a rendersi conto che il problema per cui si combatte è un problema superiore a quello della potenza della propria nazione. Cadendo spezzata la potenza militare del nazismo, tutti i paesi europei si troverebbero contemporaneamente di fronte al problema di dare un ordine al continente» (SUE). Come sopra già detto, a seguito e in sincronia con questa implosione, Spinelli immagina l’azione di un partito rivoluzionario dotato (implicito nel suo discorso) di un’organizzazione e di un apparato para-militare.
Il riferimento di Meloni è appunto a quel metodo e all’assetto interno della futura Europa, che per Spinelli e Rossi doveva essere socialista – idee simili circolavano in Europa in quegli anni, le sostenevano apertamente anche Lord B. Russell e G. Orwell. Dunque, il linguaggio usato da Spinelli e Rossi va contestualizzato, è quello di quel tempo, con un apparato concettuale che oggi desta perplessità: lotta e coscienza di classe, rivoluzione, collettivizzazione, proletariato, sfruttamento capitalistico, imperialismo, si tratta di un linguaggio tardo ottocentesco che era tipico dell’humus culturale dei nostri ‘resistenti’ – ma questo è un discorso che qui dobbiamo tralasciare.
A me pare, in conclusione, che la Presidente del Consiglio abbia commesso almeno due leggerezze e che la sua uscita sia stata abbastanza improvvida: 1) ha manipolato un testo a uso e consumo della sua parte politica, stravolgendone il senso, tra l’altro suscitando una cagnara in Parlamento, che sembra (a giudicare dalle immagini in tv) l’abbia anche spaventata; 2) ha attribuito un metodo (la lotta rivoluzionaria) e dei fini (il socialismo) ai protagonisti di oggi, che con quella temperie politica e culturale non hanno nulla a che fare, insomma ha fatto cadere presunte colpe dei padri sui figli. Va anche detto che il metodo politico indicato nel MV e in SUE è stato sconfessato dalla storia e rigettato dai suoi stessi proponenti, da Spinelli e altri in seguito e – in definitiva – anche dai partiti comunisti e socialisti europei nel dopoguerra che hanno tutti virato verso la strategia riformista parlamentare e la socialdemocrazia. Quanto ai fini agognati da Spinelli e Rossi (uguaglianza sociale, giustizia sociale, redistribuzione) si può dire che – pur con tutte le difficoltà dell’oggi – essi sono già stati sostanzialmente raggiunti in Europa dai sistemi di Welfare.
Insomma, non c’è stata né ci sarà alcuna rivoluzione socialista ed espropriazione collettivista. La nostra Presidente del Consiglio e la sua parte politica possono in totale legittimità aspirare a un’Europa ancora frammentata e chiusa nelle sue molteplici dimensioni nazionali-comunitarie, ci mancherebbe: ognuno si scelga i suoi idoli. Ma quando dice che la sinistra «mostra un’anima illiberale e nostalgica» dovrebbe – credo – anche interrogarsi sulle sue nostalgie.
Giuseppe Ieraci dice
Non so se la Pres. del Consiglio volesse svelare le “contraddizioni” del MV con intento analitico. Per fare ciò avrebbe dovuto, appunto, analizzare il MV.
Le contraddizioni del MV non stanno – secondo me nel socialismo e nel rifiuto del capitalismo. Con J.A. Schumpeter, credo che il socialismo come “metodo economico” sia compatibile con la democrazia come “metodo politico”, economia e politica sono relativamente autonome l’ una dall’ altra.
La contraddizione del MV la trovo piuttosto nella speranza che la fondazione di un nuovo centro di potere (quello federale) possa avvenire per semplice eclisse dei centri di potere pre-esistenti (gli stati nazionali). Nessuna teoria dell’ unificazione politica – che io sappia – ha mai saputo risolvere in modo convincente questa contraddizione – tra la distribuzione attuale del potere e il suo superamento.
Quanto ai manifestanti pro-europei, quale altra “simbolizzazione” dell’ integrazione sovranazionale avrebbero potuto scegliere?
De Gasperi arriva dopo Spinelli e Jean Monnet, e nel simbolismo politico l’ imprinting conta.
Dino Cofrancesco dice
Trovo abbastanza convincente l’analisi che Giuseppe Ieraci fa del Manifesto di Ventotene. Mi chiedo, però: se una parte politica promuove una manifestazione pubblica, in una delle più importanti piazze della capitale, all’insegna di un testo ideologico che viene sbattuto in faccia a un governo che si vuol mettere alla gogna, è poi strano che quest’ultimo faccia le pulci al testo, mostrandone i punti più controversi? Se “l’apparato concettuale” del Manifesto oggi “desta perplessità”, che senso ha avuto riproporlo? Il fatto è che se al posto del Manifesto di Ventotene si fosse scelto un discorso europeista di Alcide De Gasperi, si sarebbe corso il rischio di trovar tutti d’accordo, governo e opposizione, e in questo caso sarebbe venuto meno il piacere della polemica e della provocazione.