Se appare ancora incerta l’attribuzione del celeberrimo richiamo all’«eterogenesi dei fini», inteso come l’inveramento di risultati opposti rispetto alle azioni messe in campo, che tendono a provocare, appunto, l’esatto rovesciamento dei piani coltivati (se al filosofo tedesco Wundt o a Giovan Battista Vico), di certo si sa che il principio ha trovato svariate applicazioni nell’ordinamento giuridico italiano, in quel segmento particolare che prende il nome di legge elettorale.
Probabilmente il nostro ordinamento elettorale, in special modo a livello delle assemblee parlamentari, rappresenta l’esempio più ricco di manomissioni che le democrazie occidentali possono offrire: solo nei 24 anni che vanno dal 1993 al 2017, il ritmo compulsivo del legislatore ha licenziato cinque leggi elettorali, comprendendo il proporzionale di partenza e la serie dei ‘latinorum’ (Mattarellum, Porcellum, Italicum, Rosatellum) dovuta, almeno per i primi, al raffinato e urticante sarcasmo del professor Sartori, comprendendo anche l’inedito assoluto di una legge approvata dalle Camere e repentinamente stroncata dalla Corte Costituzionale (l’Italicum di Renzi).
Agli interventi di riforma parlamentare vanno poi aggiunte le due pronunce d’incostituzionalità delle leggi elettorali vigenti dichiarate dalla Consulta nel 2013 e nel 2017. Insomma: un cantiere perennemente aperto che nasce male perché si allestisce non per costruire una regola condivisa, spinta verso il massimo grado possibile di neutralità, ma una regola poggiata sulle convenienze della maggioranza pro-tempore, visto che la legge elettorale è approvata con i numeri della legge ordinaria, pur avendo un valore specialissimo e fortemente connesso alle dinamiche costituzionali.
È spesso accaduto, pertanto, che chi maneggiava con profitto i numeri nel Parlamento abbia proceduto a modificare le leggi elettorali secondo il criterio dell’utilità politica della maggioranza, piuttosto che concepire uno strumento di democrazia costruito «con il velo dell’ignoranza», tanto per citare Rawls e il comportamento dei nostri Padri della Patria che, non avendo nessuna idea di come potesse andare a finire con la nuova forma democratica repubblicana e con l’estensione del voto a tutti i cittadini, adottarono lo strumento neutro del proporzionale, garantendo, inoltre, la possibilità del voto di preferenza.
Approvandolo – ma erano altri tempi e la contrapposizione politica sapeva trovare anche modi meno rudi e finestre di collaborazione necessaria – con maggioranze molto ampie. Insomma, la regola dell’eterogenesi dei fini è arrivata sempre puntuale, recando cocenti punizioni a chi pensava di utilizzare lo strumento della nuova legge elettorale per garantirsi un migliore risultato nelle urne: chi ci ha provato ha perso sempre. O quasi.
Bisogna, dunque, tener conto di queste eloquenti premesse per capire che cosa sta succedendo alla Camera con la nuova legge elettorale (la sesta, nella successione delle ultime richiamate), resasi necessaria dopo il referendum confermativo di settembre che ha approvato la legge costituzionale del taglio di 345 parlamentari.
Prima del referendum i due partiti titolari delle più cospicue azioni della maggioranza, il PD e il M5S, avevano trovato un’intesa sul testo (a firma dell’on. Brescia, l’A.C. n. 2329) presentato in Commissione Affari Costituzionali, d’impianto proporzionalistico e poco manomissivo rispetto al testo vigente (la legge 165/2017, il cosiddetto Rosatellum).
Di fatto la proposta di legge propone un impianto totalmente proporzionalistico, residuale rispetto al precedente, che viene depurato dei collegi uninominali corrispondenti, grosso modo, al numero dei parlamentari eliminato dalla riforma. Inoltre s’innalza la soglia di accesso al riparto dei seggi al 5% (dal 3% previgente) e si concede un diritto di tribuna alle formazioni che ottengono almeno tre quozienti (in almeno due regioni) alla Camera e un quoziente al Senato. Sopravvive la lista bloccata.
Intenso fu il dibattito (sui media, ma non altrettanto in Parlamento) sulla necessità di approvare la legge addirittura prima dello svolgimento della tornata referendaria, richiesta, in verità, anche velata di una qualche incongruenza, visto che, se la legge fosse stata approvata e il voto referendario avesse, invece, bocciato la riforma del taglio dei parlamentari, il lavoro legislativo sarebbe stato inutile.
Comunque, l’accelerazione impressa nella fase pre-referendaria sembra svaporata improvvisamente, probabilmente incagliata nella solita trappola che porta all’eterogenesi dei fini. Succede, infatti, che, dopo il furore iconoclasta che ha portato quasi tutte le forze politiche a battere le mani sulla riduzione dei parlamentari, sia intervenuta una fase in cui ciascuno fa i suoi conti su come andrebbe a finire se passasse la riforma così com’è partita in Commissione. E i conti non sempre riescono a tornare, soprattutto per quello sbarramento al 5% che è per molti una soglia irraggiungibile.
E poi c’è nel dibattito la minaccia seria dell’estinzione di un’intera classe parlamentare se, effettivamente, dovesse prevalere il principio del voto di preferenza, e vale a dire della scelta dei rappresentanti compiuta dal popolo e non dai capi bastone che compilano oggi le liste ‘bloccate’.
È ormai dal 2006 che l’antropologia parlamentare conosce come metodo di assunzione al laticlavio solo la cooptazione, e la desuetudine (o la totale inabilità) alla ricerca del consenso personale mette in crisi chi dovrebbe oggi votare una legge che lo ripristini: insomma una specie di harakiri politico. E sarebbe il secondo, dopo l’amputazione del parlamento.
È questo, dunque, il contesto in cui torna protagonista l’eterno tema della riforma elettorale, insieme al bouquet di riforme necessarie, costituzionali e non, che occorrono per costruire un atterraggio coerente e superare le aporie create dal cambiamento dei numeri della platea parlamentare. Un contesto complesso che, peraltro, non può contare su tempistiche infinite.
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