Da diverso tempo i quotidiani sono ricchi di analisi della emergenza climatica, della necessaria azione di riduzione della CO2, della revisione dei programmi già formulati accelerando il raggiungimento degli obiettivi di impatto climatico nullo in Europa per il 2050, con una tappa intermedia al 2030 di riduzione delle emissioni del 55% rispetto al 1990. Le argomentazioni accattivanti si concentrano in particolare sugli investimenti necessari (circa 1000 miliardi di euro nell’ambito del NGEU) e quindi sullo stimolo alla crescita e all’occupazione che tale strategia si auspica comporti nel medio periodo (con una spesa inclusa nel nostro PNRR di circa 70 miliardi). In altre parole, oltre a risolvere il problema ambientale avremmo anche la soluzione ai problemi di ‘stagnazione secolare’ che l’invecchiamento della popolazione comporta.
La realtà è un po’ più complessa. Come al solito molto pochi sono i pasti gratis e la transizione ecologica non è tra quelli. L’obiettivo ultimo della transizione ecologica è la modifica dei comportamenti individuali orientandoli a una maggiore compatibilità con l’ambiente naturale. Ciò può essere conseguibile (i) con l’aumento dei prezzi relativi dei beni ad alto contenuto energetico diretto e indiretto, in modo che si riduca la convenienza a domandarli sia come prodotti intermedi da parte delle imprese, sia come prodotti finali da parte delle famiglie; (ii) con l’adozione di regole che obblighino a tali comportamenti, agendo dal lato dell’offerta di beni.
Esempio emblematico del primo caso è l’aumento dei prezzi dell’energia a parità degli altri prezzi dei beni che richiedono poco dispendio energetico. Non mi riferisco agli aumenti di cui si discute in questi giorni, dovuti a un insieme di ragioni contingenti, anche se in teoria vanno nella direzione desiderata. Altrettanto emblematica, nel secondo caso (l’intervento sulle regole), è la proposta della Commissione Europea di non consentire dal 2035 la vendita di auto a motore termico.
L’aumento del prezzo relativo dell’energia l’abbiamo sperimentato a metà degli anni settanta del novecento, quando il prezzo del petrolio fu moltiplicato quasi per cinque. Gli effetti immediati furono la stagnazione con inflazione. In realtà quell’aumento non è il tipo di aumento cui si mira nei prossimi anni, in quanto allora era equivalente a una tassa che i paesi produttori di petrolio prelevarono dai paesi importatori. Il modo in cui si vorrebbe procedere ora è tramite un aumento delle imposte sui prodotti ad alto contenuto di energia (la cosiddetta carbon tax), che, una volta confluite nelle casse statali dovrebbero defluire in parte verso investimenti ‘verdi’ e in parte a temperare l’effetto reddito negativo per le famiglie a reddito più basso, le più penalizzate dall’ipotetico aumento dei prezzi dell’energia.
Nel caso dello shock petrolifero di più di quaranta anni fa l’azione congiunta di effetto prezzo relativo aumentato e effetto reddito negativo, nel corso di dieci/quindici anni portò a una riduzione del contenuto diretto e indiretto di energia nel nostro Pil del 30%. Le difficoltà politiche a percorrere questa strada sono chiare da ciò che sta manifestandosi in questi giorni con l’aumento del prezzo del gas, ma qui siamo nel caso di una tassa prelevata dall’estero, come 45 anni fa. In Francia, il tentativo, due o tre anni fa, di adottare la carbon tax, anche se morbida, portò alle prolungate proteste dei gilets jaunes.
Nel tempo queste tensioni dovrebbero essere temperate da investimenti sia pubblici che privati rivolti a fornire modalità di trasporto più compatibili con l’ambiente, il che vuol dire che importanti filiere di produzione dovrebbero tendere a esaurirsi, diventando obsolete, e altre nuove a espandersi. Ma quelle in via di estinzione dovranno espellere occupati con competenze probabilmente anch’esse obsolete e quelle in espansione necessiteranno di occupati addizionali con nuove competenze. Il trasferimento di occupazione da un settore all’altro, a parte questioni geografiche sarà ostacolato quindi dalla diversa qualità del capitale umano e dalla probabile età media avanzata dei lavoratori in uscita. La necessità di adeguati ammortizzatori sociali, di politiche attive del lavoro (formazione e aiuto all’incrocio di domanda e offerta di lavoro) e reddito di cittadinanza, nella sua funzione di reddito di inclusione; in tutti i casi, fondi aggiuntivi mentre avanza l’invecchiamento della popolazione e comunque dovrà essere improcrastinabile il rientro dal debito pubblico che si è formato in questi anni.
Tutto ciò richiede che lo Stato svolga un’attività di redistribuzione del reddito alla quale non si può evitare che contribuisca l’aumento della pressione fiscale. Il viaggio verso una maggiore compatibilità ambientale della nostra vita individuale e collettiva non avverrà lungo una strada ben asfaltata, sarà, in realtà, un percorso molto accidentato. Difficile prospettare un quadro politico in grado di governare tale percorso nella prossima legislatura.
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