La sostenibilità – qualsiasi cosa voglia dire – gode oggi di grande popolarità. C’è chi vuole inserirla in Costituzione, chi spera che risvegli le coscienze e contribuisca a mutare, tramite anche le scelte dei consumatori, il modo di produzione, chi crede – i più scettici – che sia solo una moda temporanea.
Il riferimento d’obbligo è il Rapporto Brundtland del 1987 che definisce come sostenibile quello sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità di quelli delle generazioni future. E qui sorgono già 3 ordini di problemi.
Il primo è demografico. A parità di risorse, la sola crescita della popolazione rende insostenibile la sostenibilità come noto dal Club di Roma in poi. Il secondo è che la sostenibilità non è possibile per via dei principi della termodinamica: non c’è modo per lasciare in eredità alle prossime generazioni la Terra così come noi l’abbiamo trovata poiché è impossibile realizzare un processo che sia efficiente al 100%, ovvero che non inquini. Infine, quando il Rapporto Brundtland parla di sviluppo lo fa nel senso di Kuznets, che definiva lo sviluppo economico moderno come la crescita prolungata nel tempo del reddito pro-capite.
Parla cioè di crescita e non di sviluppo che comprende l’aspetto economico – PIL e sua distribuzione, capitale fisico ed umano, tecnologia, etc. –, ma anche Natura e capitale sociale (Danovaro e Gallegati, Condominio Terra, Giunti, 2019). Per esser chiari: chi non crede che il benessere migliori dopo il 1512, con la volta della Cappella Sistina e le Stanze di Raffaello finalmente affrescate, o con la biodiversità conservata? Il benessere può essere sostenibile, la crescita no.
Non dobbiamo illuderci che la tecnologia possa permetterci di crescere in modo sostenibile poiché, per quanto possiamo essere tecnologicamente avanzati, non saremo mai perfetti e inquineremo il Pianeta. Secondo le leggi della termodinamica non saremo mai in grado di non produrre scorie, che non potranno mai più rientrare nel ciclo produttivi.
Gli stessi processi di riciclo o recupero, in quanto soggetti alla termodinamica produrranno scorie non più utilizzabili. Dovremmo certo aspirare a processi produttivi meno inquinanti, ma senza illuderci che l’economia circolare – una crescita economica senza distruzione o spreco – sia possibile o che – come sostiene l’Unione Europea – questa «promuoverà una crescita economica sostenibile».
In economia, come in tutti i processi irreversibili, le risorse non possono essere continuamente riutilizzate, il che significa che ci sono attività estrattive o produzione di rifiuti non riciclabili. Un uso più responsabile delle risorse è ovviamente un’ottima idea. Ma per raggiungere questo obiettivo, il riciclaggio e il riutilizzo non sono sufficienti. La teoria economica dominante non ci è di aiuto perché utilizza gli strumenti della fisica classica, dove esiste solo equilibrio ed ergodicità.
Lo sviluppo sostenibile sarebbe possibile se si rispettassero quattro condizioni: l’utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere inferiore al loro reintegro ed anzi aumentare in linea con l’andamento demografico; lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo in termini pro-capite [cioè muoversi in linea con aumentare in linea con l’andamento demografico; bisognerebbe comunque tenere conto del progresso tecnologico, che può cambiare la natura stessa delle risorse (l’uranio, per esempio, non era una risorsa nell’Ottocento, lo diventa nel Novecento; e così in futuro potrebbero aggiungersi nuove risorse)]; il processo di produzione non deve essere soggetto alle leggi della fisica; e l’inquinamento dell’ambiente non deve superare la capacità di carico dell’ambiente stesso.
Le prime due sono condizioni economiche – da leggere, rimarco, in rapporto a una popolazione che è quasi triplicata negli ultimi 60 anni – mentre le altre ci ricordano che siamo parte della natura e che, poiché i tempi di reazione di questa sono assai diversi da quelli dell’economia, rischiamo di abbuffarci oggi e morire di fame domani.
Produrre rispettando l’ambiente è necessario, sebbene non sufficiente. Se è vero che «l’età della pietra non ebbe fine perché finirono le pietre», quella dei combustibili fossili non avrà termine con la loro disponibilità, ma perché il loro uso sta distruggendo la vita umana.
Raggiungere la consapevolezza che solo producendo rispettando la natura ci sarà un futuro, non è però sufficiente. Le condizioni sopra ricordate ci ammoniscono a contrastare il dogma della crescita infinita del PIL. È ormai ora di agire per indirizzare la produzione in un modo compatibile con l’ambiente e con l’umanità, cioè col benessere. Il capitalismo ha dimostrato che il mercato non si regola da solo, producendo ad esempio troppo inquinamento e poca ricerca.
Poter credere di attribuire un prezzo a tutto – come fa il PIL – è estremamente limitativo, perché non si possono valutare in termini economici salute e benessere. Se è difficile quantificare i danni diretti operati dall’uomo nel corso delle sue attività produttive, appare ancora più difficile calcolare il costo delle ripercussioni indirette, come quelle causate dai cambiamenti climatici.
Possiamo restaurare gli ecosistemi degradati, utilizzare l’ecologia industriale, sviluppare sistemi innovativi per ridurre l’anidride carbonica, gestire in modo virtuoso la natura rispettando i suoi processi. Ma tutto questo finirà con lo scontrarsi con un sistema guidato dalla massimizzazione del PIL – e che cerca una impossibile giustificazione nella ‘teoria’ neoliberista. Nelle parole di Abramovitz: «L’uroboro è un serpente mitologico che si nutre cibandosi della propria coda che continuamente ricresce. Sarebbe bello se anche per l’economia fosse così, ma non può accadere se non violando le leggi della fisica. Più modestamente mi accontenterei che rifiutassimo il precetto di un unico percorso da seguire e di preoccuparci solo della crescita del PIL».
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