Si va parlando, ormai da qualche tempo, di crisi della globalizzazione – una crisi che, iniziata ben prima dell’elezione di Donald Trump, sta registrando una preoccupante accelerazione dopo la nuova presidenza americana. È un fatto che, dall’inizio della crisi finanziaria del 2007-08, il commercio mondiale non si è più ripreso. Cosa è successo al libero scambio?, titolava un paio di settimane fa il prestigioso «Wall Street Journal». Si pensi anche al fallimento dei negoziati sul trattato del Ttip (Transatlantic Trade and Investiment Partneship) tra USA e UE, materializzatosi alla vigilia dell’ascesa di Trump. Un aspetto della questione non deve passare sotto silenzio: mentre abbondano riflessioni e analisi intorno ai possibili effetti negativi delle tendenze in atto, non altrettanto si può dire della ricerca delle cause profonde di quanto va accadendo. [Leggi di più…]
Isole nell’arcipelago
Nei periodi di crisi emerge – quasi istintivamente – la voglia di isolarsi dagli altri, sia per gli individui che per gli Stati. Ci si chiude per non essere contagiati dalle debolezze altrui, per il timore che i diversi ci rubino le nostre, seppur precarie, posizioni di raggiunto benessere e spesso per la paura del nuovo. Si ha bisogno di soluzioni nuove per evitare di riproporre quelle stesse politiche che ci hanno condotto nella crisi sperando che ora ce ne tirino fuori. La storia pullula di casi simili ed anche oggi – con la crisi scoppiata 10 anni fa e non ancora risolta – si ripropone. Ma la storia non è mai uguale e anche stavolta è diversa e semmai più preoccupante. Siamo oggi infatti in presenza di 2 fattori in azione congiunta: la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale. Stavolta è però differente perché c’è tensione tra il protezionismo che rafforza le spinte – protezioniste in economia – verso gli stati nazionali e la necessità del loro superamento dettato dalla necessità di redistribuzione del reddito e dall’ecologia, per via del cambiamento climatico indotto dall’attività dell’uomo (e di cui le migrazioni sono solo una conseguenza e un epifenomeno). [Leggi di più…]
Globalizzazione e rivoluzione digitale: un ruolo inatteso per la Cina
La globalizzazione è periodicamente messa sotto accusa; questo è uno di quei periodi.
Sostenuta dell’autorevolezza del nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, torna oggi di moda una critica fondata sui rischi di un libero scambio incontrollato.
Si ritiene che limitando il libero scambio e in particolare concentrando l’attenzione dei singoli paesi sull’esigenza di equilibrio nei rapporti di scambio bilaterali, si favorisce la ripresa dell’occupazione minacciata dalle eccessive importazioni o della immigrazione di manodopera straniera.
Sembra quasi paradossale che Xi Jinping, presidente di un paese che si dichiara ancora formalmente comunista come la Cina, abbia invece recentemente al Forum di Davos invitato a valorizzare gli aspetti positivi della globalizzazione e la necessità di governarla attraverso una crescente collaborazione multilaterale.
Xi Jinping ha probabilmente capito che la forza fondamentale che spinge oggi e spingerà in futuro la globalizzazione non è il libero scambio, ma la rivoluzione digitale (alcuni parlano di una quarta rivoluzione industriale). [Leggi di più…]
Serve una nuova Bretton Woods
Molto più che i danni procurati, e ce ne sono, il processo di globalizzazione, iniziato con gli anni Novanta, ha creato benefici diffusi e consistenti. Solo che questi sono stati tutt’altro che uniformi. Solo un approccio ideologico e nostalgico, per non dire egoista, può ignorare l’irriducibile ‘merito’ della globalizzazione di aver dimezzato l’incidenza della fame sulla popolazione globale, scesa dal 40% al 18% sul totale degli abitanti del pianeta. Per esempio, in 20 anni la sola produzione di cereali è triplicata, aumentando l’apporto calorico pro capite del 38%, su un bacino di oltre due miliardi di persone, quasi un mondo intero. Basti pensare che nel Secondo Dopoguerra il 55% del pianeta viveva con meno di un dollaro al giorno, mentre oggi siamo scesi sotto al 20%. E, stando ai calcoli dell’Economist, dal 1995 ad oggi – periodo comprensivo, dunque, della recessione globale – l’apertura dei mercati ha migliorato le condizioni di vita di 900 milioni di persone. Ma questi vantaggi si sono concentrati in modo costante e omogeneo solo in alcune zone del mondo. Non a caso, se in passato l’aspettativa di vita nel subcontinente indiano era di 27 anni, attualmente è di 63, la stessa dell’Europa della prima metà del Ventesimo secolo.
In effetti, specie dopo il crack finanziario del 2008 e la conseguente recessione, in Occidente la globalizzazione – tra fantasie di ‘decrescita felice’, reflussi protezionistico-nazionalistici e apologia del ‘local’ – sembra essere diventata un nemico da abbattere. Se negli anni Ottanta e Novanta gli effetti positivi cavalcati soprattutto dal mondo della finanza si sono riflessi anche sulla maggioranza della popolazione, successivamente la concentrazione della ricchezza ha assunto toni eccessivi, con un contestuale impoverimento – non solo economico – del ceto medio. I dati ci dicono che, da sole, ottocento imprese realizzano la metà del pil mondiale e che Piazza Affari capitalizza meno dell’1% di Amazon, mentre 62 individui detengono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione. Un rapporto sempre più piramidale, visto che se nel 2010 le persone ‘all’apice’ erano 388, nel 2020 saranno solo in 11, con un incremento del patrimonio stimato in 542 miliardi di dollari. [Leggi di più…]
Trump alla fine della globalizzazione? Se a rompere le regole è chi le ha dettate
La presidenza Trump non è il primo ma è comunque un grosso ostacolo alla globalizzazione. Per capirne l’entità, conviene fare un passo indietro e acquisire prospettiva.
La globalizzazione nasce nella mente dei governanti americani alla fine degli anni ’60. Nixon si rende conto che gli USA non ce la fanno più a sostenere l’onere del Gold Exchange Standard, che dissangua le riserve auree di Fort Knox, e a sopportare l’agguerrita concorrenza dei prodotti europei. Decide di cambiare le regole del gioco: abbandona la convertibilità del dollaro in oro e sdogana la Cina.
La Cina diverrà il principale coprotagonista della globalizzazione, mentre l’Europa via via marginalizzata finge di unirsi. Dollari disancorati dall’oro inondano il mondo; ne son pieni i forzieri cinesi.
Mentre gli USA si trasformano da grandi creditori al più grande paese debitore della storia, la globalizzazione prorompe finanziata a credito dal resto del mondo. Genera enormi profitti per chi possiede il capitale. Invece, quando non calano, i salari crescono comunque poco. La disuguaglianza negli USA torna ai massimi di inizio ‘900. La classe media soffre e, per non comprimere i livelli di consumo, si indebita pesantemente con la compiacenza di un sistema finanziario che si inventa strumenti complessi.
Scoppia perciò la crisi del 2008. L’economia viene fatta ripartire con la droga monetaria (QE) e fiscale (vertiginosi deficit pubblici) ma si accentua ancora la sofferenza della classe media americana. Cresce la sua rabbia. La miscela è pronta.
Un tycoon proprietario di grandi attività in industrie in declino (immobiliare e media tradizionali), noto per le bravate da macho e non come capitano d’industria, si erge a paladino contro il male, che ovviamente sta al di là dei confini nazionali. Sequestra il partito repubblicano. Propone ricette semplici, poco conta se siano praticabili. Ammalia i rabbiosi. Vince la Casa Bianca.
È verosimile che Trump dei muri che ha proposto ne costruirà pochi, che ammansisca toni e obiettivi (anche se ciò non traspare dai primi atti). Ma già il fatto di aver sdoganato la diffidenza planetaria, in un modo o nell’altro, scatenerà pulsioni tra gli USA e l’estero. La Brexit sarà stato solo un assaggio. [Leggi di più…]