È solo rieducando l’orecchio contemporaneo ad un ascolto in prospettiva storica che può risuonare il significato della «repubblica» alla cui costruzione Sartori si è dedicato. Ci sono voluti duemila anni – sostiene – per passare dalla democrazia della polis, cioè della comunità, a quella dello Stato; anni durante i quali di democrazia non si è più parlato: «Per indicare l’ottimo regime, la forma politica ideale, si disse respublica, “cosa pubblica”» (La democrazia in trenta lezioni, Mondadori, 2008, p. 39). E proprio questo lungo passaggio intermedio per la respublica è indispensabile per comprendere la differenza qualitativa tra la nostra idea di democrazia e quella degli antichi, che sembra incarnare l’ideale della partecipazione di «tutti» entro la polis e che invece è, di fatto, la democrazia orizzontale della città-comunità: una città senza Stato, dunque senza rappresentanza, dunque – per come oggi la intendiamo – senza democrazia. La democrazia degli antichi, cioè quella diretta, si traduce in decisioni a somma nulla, mentre quella dei moderni produce decisioni a somma positiva: «La prima suddivideva il demos in vincitori e vinti, la seconda consente a tutti di ottenere qualcosa» (p. 40).
(Estratto dall’editoriale di «Paradoxa» 1/2014, La Repubblica di Sartori, a cura di G. Pasquino, p. 10)