La riflessione che Dino Cofrancesco ha di recente proposto alla nostra attenzione sul forum di «ParadoXa» (Il sessantottismo come anticomunismo assoluto) parte dalla constatazione che la malattia di cui ha sofferto l’Italia a cominciare dal ’68, malattia forse mortale, comunque assai grave e prolungata, «è la crisi della comunità politica – la ‘morte della patria’ […] – ovvero l’assoluta incapacità di sentirsi parte di una ‘nazione’ (termine non certo caro alla political correctness), indipendentemente dalle opinioni e dalla varietà dei partiti in competizione per il potere. Non può esserci ‘senso dell’autorità’ in astratto se quanti ne sono portatori – in famiglia, a scuola, sul luogo di lavoro – non vengono percepiti come ‘funzionari’ e simboli di qualcosa che li (ci) trascende». Ma qui sorge il punctum dolens della nostra storia politica recente, delle origini della Repubblica democratica italiana, che nasce, sì, dalla Resistenza e dall’antifascismo, ma anche dalle macerie di uno Stato-nazione che il fascismo ha doppiamente manomesso fino al punto di sfasciarlo. In primo luogo, ha dato vita ad una dittatura ventennale, ad un regime liberticida. [Leggi di più…]
Premesse e volti del lungo Sessantotto italiano
Non fu il ‘68 a portare il vento della giovinezza nella società italiana. C’era già negli anni immediatamente precedenti. Io ricordo il senso di promessa, di apertura, di futuro. L’incontro tra Kennedy e Krusciov faceva sperare nella fine della guerra fredda. I Kennedy erano un mito anche per me che ero comunista; dall’Est europeo arrivavano critiche al comunismo sovietico a cui eravamo sensibili. Il Concilio mostrava una Chiesa finalmente aperta alla società, finalmente tollerante. Il mio prof. di religione mi diceva che io anche se non credente sarei stata salvata, perché ero di buona volontà. Non mi importava la religione in sé, ma capivo che era un fattore straordinario di apertura della società.
La lotta dei vietnamiti faceva sperare nella sconfitta della parte più cieca dell’imperialismo americano. Noi giovani ci sentivamo portatori di un mondo nuovo, che non passava necessariamente per una rivoluzione politica, ma culturale. L’episodio della «Zanzara» è del 1966. Si trattava di una iniziativa culturale di studenti bravi, certo non una contestazione dello studio o della scuola. [Leggi di più…]
Il ’68: tra iper-capitalismo e anti-nazionalismo
La riflessione di Cofrancesco sul ’68 ha il merito di aver colto con lucidità forse la ragione più profonda della crisi attuale del nostro Paese, la perdita del sentimento di appartenenza ad una comunità politica.
Il nostro sentimento nazionale è talvolta minato da una sottile malattia. Una sorta di senso servile che gli impedisce di riconoscere il valore di una identità anche nel momento semmai della disfatta. Mi sono chiesto se anche nel sessantotto non si annidasse un tale senso. E mi sono purtroppo risposto che sì, ancora una volta in quel periodo ci siamo trovati di fronte al manifestarsi di quella malattia endemica.
Retrospettivamente, a mio parere, in un tale periodo quest’ultima ha ripreso vigore a causa dell’ipercapitalismo che ha surrettiziamente influenzato i vari movimenti di protesta. [Leggi di più…]
Il sessantottismo come anticomunitarismo assoluto
Nel corso delle tavole rotonde dedicate alla presentazione del fascicolo di «Paradoxa», da me curato, Il 68 italiano. Radici storiche e culturali, ho provato una sensazione di disagio ogni volta che un relatore ha commentato il mio saggio Il Sessantotto e la Resistenza. Eccetto Andrea Bixio, quasi tutti hanno ripreso i temi da me trattati in un’ottica ‘societaria’ – riferita alla forma di governo nata dalla lotta antifascista, alla political culture, all’ideologia del regime, ai programmi e alle filosofie dei partiti politici che ereditarono, nel 1945, un paese a pezzi. Indubbiamente anche nel mio saggio c’era tutto questo, ma, ahimè, debbo constatare che non sono riuscito a spiegarmi chiaramente dal momento che anche attenti lettori non hanno compreso che il piano del mio discorso non era quello del conflitto sociale e politico intra moenia, ma quello della comunità politica. Nella mia prospettiva, la crisi del principio di autorità – così bene analizzata nel saggio di Paolo Bonetti ma anche in altri – o l’impatto dell’università di massa sulle vecchie istituzioni accademiche, per limitarmi a due esempi, diventano, pur nella loro rilevanza, epifenomeni o meglio sintomi di una malattia profonda, alla quale non si rimedia coi blandi antibiotici del recupero di virtù antiche – responsabilità, professionalità, senso del dovere, rispetto del sapere, culto della scienza. [Leggi di più…]