La tanto attesa riforma organica del nostro Terzo Settore è ora realtà. Il 3 agosto scorso è entrato in vigore il «Codice del Terzo Settore», approvato dal D. Lgs.117/2017. Si tratta del più corposo dei cinque provvedimenti emanati in attuazione della legge di Riforma 106/2016. (Gli altri quattro riguardano il servizio civile universale, l’impresa sociale, il 5 per mille, la Fondazione Italia Sociale – quest’ultimo provvedimento non ancora emanato, però). Per i prossimi mesi si attendono i decreti ministeriali attuativi delle nuove norme, dopo di che si potrà dire che la Riforma sarà andata a regime. È bene tenere a mente che la Riforma di cui qui si parla è la prima del genere nel nostro paese, trattandosi della prima legge civilistica che riconosce piena identità giuridica agli enti di Terzo Settore – dal volontariato alle associazioni di promozione sociale; dalle cooperative sociali alle imprese sociali; dalle fondazioni civili alle ONG – operanti in Italia. Si è così mosso un passo importante nel passaggio dal «diritto degli enti di Terzo Settore» al «diritto del Terzo Settore».
La Riforma è il punto di arrivo di un lungo percorso deliberativo iniziato con la modifica, nel 2001, del titolo V della Costituzione, modifica che sancisce, in linea di principio, il superamento del modello bipolare di ordine sociale basato sui due cardini dello Stato e del Mercato. Gli articoli 118 e 119 affermano esplicitamente che pure i cittadini, individualmente oppure in gruppo, sono in grado di operare direttamente per l’interesse generale e pertanto devono essere posti nelle condizioni di poterlo fare. Una seconda tappa importante in tale processo è stata la pubblicazione, nel novembre 2009, da parte dell’Agenzia Nazionale per il Terzo Settore, del documento Per una riforma organica della legislazione sul Terzo Settore: non poche delle proposte ivi avanzate sono state recepite dalla Riforma del 2017. La quale accoglie quale suo principio ispiratore la nozione di «responsabilità sociale condivisa» approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 22 gennaio 2014. Si tratta di una nozione che, per un verso, supera la ben nota tesi della separazione tra sfera etica, politica ed economica, e per l’altro verso getta le basi per forme nuove di cooperazione tra pubblico, privato e civile.
Dal momento che questo Forum ospiterà, nelle settimane a venire, contributi di studiosi e operatori che illustreranno gli elementi di maggiore novità contenuti nella Riforma, oltre che talune criticità in essa presenti, in quel che segue fisserò l’attenzione su quegli aspetti che, a mio giudizio, ne costituiscono l’impianto per così dire filosofico.
Due sono le posizioni principali che si nascondono nelle pieghe delle tante discussioni che si sono fatte e si vanno facendo intorno al Terzo Settore. Per un verso, quella di coloro che lo vedono come l’eccezione alla regola rappresentata dalla centralità delle organizzazioni for profit e degli enti pubblici. Un’eccezione bensì importante e lodevole, da sostenere e da favorire anche sul piano fiscale, ma pur sempre una realtà di nicchia. Per l’altro verso, la posizione di chi considera il Terzo Settore come elemento di disturbo o di delegittimazione nei confronti dell’intervento pubblico. Per costoro, un’ulteriore espansione del Terzo Settore – in Italia si tratta di oltre 300.000 enti che occupano più di un milione di lavoratori – finirebbe per ritardare la piena realizzazione della cittadinanza democratica, la quale sola potrebbe assicurare il rispetto dell’individuo qua cittadino e non già qua prossimo. Nonostante le differenze, entrambe le posizioni celano una grave aporia. Chi si riconosce nella posizione «neo-liberista» vede nel Terzo Settore un modo per supportare il modello del «conservatorismo compassionevole» assicurando livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione che lo smantellamento del welfare state che essi invocano lascerebbe altrimenti senza alcun aiuto. Ma ciò genera un paradosso: come si può pensare di incoraggiare la disposizione donativa presso i cittadini quando la regolazione sociale attraverso il mercato viene basata sul principio dell’interesse proprio e sulla razionalità dell’homo oeconomicus? Solamente in società di schizofrenici ciò sarebbe possibile: individui talmente dissociati da seguire la logica dell’auto-interesse quando operano sul mercato e la logica della gratuità quando vestono i panni del filantropo. Non nego affatto che nella realtà ciò accada, ma nessun ordine sociale può durare a lungo e godere di buona salute se coloro che ne fanno parte mantengono comportamenti così dicotomici.
Anche la concezione neo-statalista genera un paradosso analogo a quello precedente, sia pure simmetrico. Ritenendo di poter imporre per via esclusivamente legislativa, cioè di comando, l’attuazione dei diritti di cittadinanza, tale concezione spiazza la cultura del dono come gratuità, negando, a livello di discorso pubblico, ogni valenza al principio di fraternità. Se a tutto e a tutti pensa lo Stato – posto che ciò sia possibile – è chiaro che quella virtù civile che è lo spirito del dono non potrà che andare incontro a una lenta atrofia. La virtù, infatti, a differenza di quel che accade con una risorsa scarsa, si decumula con il non uso. È veramente singolare che non ci si renda conto che entrambe le posizioni finiscono col relegare valori come gratuità e reciprocità alla sfera privata, espellendoli da quella pubblica. La posizione neo-liberista perché ritiene che all’economia bastino i contratti, gli incentivi e ben definite regole del gioco. L’altra posizione, invece, perché ritiene che per la solidarietà basti lo Stato, il quale può appellarsi alla giustizia, non certo alla fraternità.
La modernità, nella sua furia costruttivista, si è adoperata a neutralizzare la terziarietà: tutto deve rientrare o nello Stato o nel Mercato e a seconda delle simpatie politico-ideologiche si dovrà puntare sull’uno o sull’altro pilastro. Ebbene, il Terzo Settore che la Riforma disegna rompe questo schema, ormai datato. Gli enti che ne fanno parte non sono più considerati come soggetti per la produzione di quei beni e servizi che né lo Stato né il Mercato hanno interesse oppure la capacità di produrre (i c.d. fallimenti del mercato e dello Stato), ma come una specifica forma di governance basata sulla cooperazione e sulla reciprocità. Ciò significa che il Terzo Settore del dopo Riforma non può esimersi dal porre in cima ai propri obiettivi la rigenerazione della comunità. La strategia da perseguire è allora quella di dare ali a pratiche di organizzazione della comunità (community organizing). È questo un modo di impegno politico complementare – e non alternativo, si badi – a quello tradizionale basato sui partiti, un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe udita, di contribuire a dilatare il processo di inclusione sia sociale sia economica. Quella dell’organizzazione della comunità è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto, è una strategia la cui mira è quella di attuare il principio di sussidiarietà circolare – la cui prima formulazione risale a Bonaventura da Bagnoregio alla fine del XIII secolo – articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità, il c.d. modello tripolare di ordine sociale
In buona sostanza, il guadagno, non da poco, che la Riforma ci consegna è quello di liberare quel «Prometeo incatenato» che è stato finora il Terzo Settore italiano, consentendogli di esprimere in libertà tutto il potenziale di sviluppo di cui è capace. È questa una buona notizia, perché non v’è dubbio alcuno che il futuro, anche prossimo, vedrà crescere, nel nostro come negli altri paesi dell’Occidente avanzato, l’importanza relativa del civile accanto al pubblico e al privato.
Maria Rita Angelini dice
Complimenti per la chiarezza con cui è stato esposto il problema. Sto per costituire un Ente del terzo settore e le sue parole mi sono di grande aiuto per comprendere a cosa vado incontro in attesa dei decreti attuativi