Politologi, storici, sociologi, antropologi hanno spesso sostenuto la tesi che la democrazia non sia un regime facilmente impiantabile e replicabile a piacimento. Sabino Cassese però continua a ritenerla sbagliata e la definisce una «versione estremistica della democrazia» (I diritti universali, «Corriere della Sera», 22 agosto 2021). Ci sono due aspetti nel ragionamento di Cassese che meritano attenzione, uno è esplicito e poggia per la verità su basi deboli: si tratta dell’argomento che, siccome ci sarebbe il riconoscimento del diritto alla democrazia, allora si deve fare il possibile per diffonderla nel mondo, soccorrere i popoli che l’invocano. L’altro argomento è implicito, più sottile, e se opportunamente sviluppato non privo – secondo me – di qualche giustificazione etica e filosofica, forse anche di qualche fondamento positivo.
Veniamo al primo argomento. Nelle relazioni internazionali, dichiarare un diritto, farne un universale, non necessariamente implica il suo perseguimento. Il diritto diventa davvero tale quando un terzo – il giudice – è legittimato ad intervenire per correggere o punire la mancata ottemperanza del patto sottoscritto (o tacito). Ma nelle relazioni internazionali, nelle relazioni tra gli stati, chi vincola questi stessi a rispettare i patti? Nella sfera delle relazioni internazionali, chi interviene per sanzionare la mancata garanzia di un diritto? La risposta è ovvia, non c’è alcun vincolo, non c’è alcuna necessità, se non la determinazione – la «volontà di potenza», verrebbe da dire – dei singoli stati a far valere come ‘universali’ certi principi e certi interessi.
Questa è sì una visione ‘estremistica’ della dottrina democratica – non quella che Cassese attribuisce ai politologi realisti – perché implica che alcuni (i popoli dell’occidente) dovrebbero svolgere una funzione pedagogica e missionaria, istruire gli altri popoli alla democrazia e esportarla presso di loro, perché la democrazia è un ‘diritto universale’ e va fatto valere quando qualcuno lo reclama. In modo simile, Paolo Pombeni ha sostenuto in Paradoxaforum (6 settembre 2021) che i regimi politici sono stati esportati e imposti nei secoli della storia, mostrando l’esempio dell’antica Roma. Sfugge il fatto che quello era appunto un imperium.
Passo al secondo aspetto dell’argomentazione di Cassese, che è per la verità implicito. Può esistere un diritto o meglio sarebbe dire, con Bruno Leoni, una «pretesa» a qualcosa senza un’agenzia che quel diritto o quella pretesa la faccia valere, se necessario anche forzatamente? Qui forse qualcosa dell’argomento di Cassese si può recuperare e anche condividere, sia pure – come dirò – su presupposti completamente diversi da quelli da lui posti.
Cassese fa riferimento ad un supposto «diritto dei popoli alla democrazia» come se qualcosa del genere esistesse. Il punto è – già richiamato – che nelle relazioni tra gli stati, se c’è una statuizione di tale diritto (nelle parole di Cassese, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e il patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966), non vi è alcun tribunale che possa farla valere, se non l’impero delle nazioni che si scontrano nella politica internazionale. Molte delle ambiguità e dei problemi discendono dal fatto che si ricorra in questo frasario alla parola ‘diritto’, che presuppone sempre una sua esigibilità, appunto un giudice e delle forze dell’ordine che lo facciano valere. Il «diritto dei popoli alla democrazia» non è un diritto, ma una pretesa (nel senso di Bruno Leoni), cioè un interesse che alcuni gruppi (donne, intellettuali, ceti sociali emergenti, gruppi economici), peraltro spesso minoritari nei vari contesti in via di democratizzazione, avanzano a gran voce e invocano nella speranza di far scattare l’azione di potere di qualcuno (un altro popolo ‘armato’) a sostegno.
Solo da questo punto di vista si può parlare di un «diritto alla democrazia» come qualcosa di esistente, in quanto se – poniamo – l’Afghanistan viene invaso e occupato da potenze occidentali, in risposta ad una ‘pretesa’ di istituire una democrazia avanzata da alcuni gruppi, allora quel diritto alla democrazia esiste perché riconosciuto con la forza da qualcuno (i popoli dell’occidente) a quei gruppi che lo hanno invocato come un loro interesse.
Questo diritto/pretesa della democrazia esiste anche se nessuno interviene in soccorso di un popolo che lo reclami? Cioè: se pretendo la democrazia per me e per i miei, ma nessuno è disposto a soccorrermi, significa ciò che quella pretesa cade e non esiste più? Questo è il punto cruciale, perché se una pretesa non è soddisfatta qui ed ora, questa stessa pretesa potrebbe diventare una posizione avanzata da qualche altro attore in diverso momento, in diverso contesto. La pretesa della democrazia, infatti, è alimentata non da codificazioni o statuizioni, se non come un fatto sovrastrutturale, come nel caso della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Questa pretesa è alimentata da credenze, valori, tratti culturali e modelli sociali conosciuti e diffusi. Siamo in presenza del fenomeno dell’esposizione di popoli a questi modelli sociali, che fa nascere in essi – appunto – una pretesa o aspettativa di un riconoscimento simile, in assenza del quale la reazione non è – giustamente, ci mancherebbe – rassegnazione, attesa o rinuncia, ma senso diffuso di frustrazione, il senso di una ‘privazione relativa’ di qualcosa che gli altri (i popoli occidentali) hanno e noi no.
Se dunque una pretesa di democrazia non genera alcuna azione internazionale che la realizzi (nessuna nazione è disposta a mettere the boots on the ground per salvarci), significa che non potrà eventualmente essere invocata in futuro dai popoli oppressi? Significa che quella pretesa muore? Il caso evocato del supposto «diritto dei popoli alla democrazia» si configura proprio così: si tratta in definitiva di pretese avanzate da gruppi minoritari in certi contesti, che continuano ad essere alimentate da quei gruppi e che finiscono per divenire modelli sociali e politici di riferimento, astratti ed ideali ma capaci di essere costantemente invocati nella lotta politica. Anche il diritto è un ‘fatto culturale’, un fatto della mente.
Ricondotta a questi termini, la sfida della democratizzazione resta aperta e non risolta, così possiamo anche accogliere il grido di Cassese. Ma non si tratta minimamente di un problema giuridico o inquadrabile in una prospettiva giusnaturalista – che sembra implicita nelle parole di Cassese. Si tratta di vedere come modelli socio-culturali ed etico-politici occidentali, ormai diffusi almeno tra élite delle nazioni ‘non democratiche’, che creano aspettative-pretese per quei gruppi elitari, possano essere compatibili con altri modelli di riferimento in quei contesti, senza determinare esplosioni di conflitto. Un problema di realismo politico, non di diritti.
Dino Cofrancesco dice
Davvero magistrale l’articolo di Giuseppe Ieraci! Siamo stanchi di sentirci richiamare ai diritti, prescindendo dalla politica e dagli stati. L’universalismo etico-giuridico porta solo a non farci vedere cosa sta bollendo nella pentola del pianeta. Saranno i pochi scienziati politici ancora rimasti in Italia–come Ieraci–e i grandi giornalisti senza paraocchi come Federico Rampini ad aprirci gli occhi dinanzi al mondo (terribilmente complesso) in cui viviamo.