Covid 19 non è la prima e non sarà probabilmente l’ultima minaccia di questo tipo che dovremo affrontare. Nessuno può escludere che in futuro virus altrettanto contagiosi e più letali possano mettere in pericolo la vita di milioni di persone in ogni angolo del pianeta ed è proprio per questo che farsi trovare ‘preparati’ è importante. La lezione impartita da questa pandemia è dura, anche perché ci costringe a prendere atto che ci sono ‘illusioni’ difficili da superare e che dovremmo invece riconoscere finalmente come tali. Almeno tre – a mio avviso – meritano una particolare attenzione.
La prima è l’illusione che, di fronte a sfide di questa portata, ci siano soluzioni semplici e dall’esito garantito per mettersi ‘al sicuro’. I fatti hanno dimostrato – purtroppo – che la situazione non era ‘sotto controllo’, come è stato ripetuto agli italiani fino ai giorni dell’esplosione dell’epidemia nel lodigiano. Sarebbe però ingeneroso dire che non era stato fatto niente.
La verità, in questo caso come in tante altre situazioni che sono la passione e la croce dei teorici della scelta razionale, è che è difficile trovare il giusto punto di equilibrio di fronte a un rischio grave ma dai contorni incerti. E ciò fin dal momento in cui si tratta di evitare che la minaccia entri nel paese (le quarantene), perché una volta che ciò è avvenuto e la diffusione è iniziata si tratterà di contenerla. Fino a dover pagare costi anche molto alti (il blocco di interi settori dell’economia e le limitazioni alla libertà delle persone).
Covid 19 non è una semplice influenza, ma non è neppure Ebola e poteva apparire ragionevole scegliere di adattare gli interventi all’evoluzione della situazione, anche perché provvedimenti più rigorosi decisi in solitudine (il blocco dei voli diretti) possono aprire falle perfino più grandi di quelle che si cerca di chiudere. Il punto è che sarebbe sempre bene non usare il linguaggio delle certezze. Mettendosi magari in condizione, nel frattempo, di produrre mascherine e ventilatori a ciclo continuo, senza aspettare l’epidemia per cominciare a porsi il problema.
La seconda illusione, collegata alla prima, è quella dei confini egoisti. Sembra davvero incredibile, ma c’è ancora chi pensa che possano essere i singoli stati, ciascuno per proprio conto, a condurre questo tipo di battaglie. Da questo punto di vista, in particolare, non si può non constatare come l’Unione Europa, ancora una volta, sia venuta meno al dovere di proporsi fin dal primo momento come soggetto di solidarietà vera fra gli stati membri.
Non è una novità, se solo si pensa a quanto accaduto di fronte alla sfida dei migranti. Gli interessi e la sicurezza, quando davvero c’è in gioco qualcosa di importante, tendono a restare una questione nazionale e ad essere affrontati come tali. Anche quando diventa chiaro che quel che tocca agli altri toccherà anche a me.
La spiegazione di quanto è accaduto nei termini di un problema di distribuzione di competenze rafforza solo la convinzione che davvero occorre cambiare rotta. E si può sperare che alcuni segnali venuti da Bruxelles dopo le incertezze iniziali siano davvero i primi passi in questa direzione. Il nazionalismo di fronte alle pandemie, peraltro, non è solo eticamente discutibile. È sbagliato perfino dal punto di vista degli egoisti razionali, perché senza un efficace coordinamento non si fermano i virus. Soprattutto nell’epoca della globalizzazione.
La terza illusione è quella della conoscenza senza valori. Questa esperienza dovrebbe anche aiutarci a riconoscere che non basta ascoltare la scienza e i suoi esperti per individuare il ‘bene’ o almeno il ‘male minore’ in una società di esseri umani insieme liberi e vulnerabili. Le contrapposizioni che abbiamo visto fra gli stessi scienziati (fino all’ultima sul morire con o per il coronavirus) sono la prova che, quando si tratta di capire come funziona il corpo umano e soprattutto come esso reagisce a nuove minacce, può non essere facile arrivare subito a inattaccabili certezze. Allo stesso tempo, ci ricordano che la conoscenza è indispensabile e tuttavia non basta per scegliere la direzione da prendere.
Le scelte e le priorità nell’allocazione delle risorse per la protezione della salute, prima di una crisi e dopo che è scoppiata, dipendono da principi e valori. Ecco perché, per esempio, sarebbe bello se si abbandonasse l’insistenza sul fatto che a morire sono quasi esclusivamente le persone anziane e con patologie pregresse. Non perché non sia vero, ma perché ciò che una comunità vuole essere si riconosce anche dal modo in cui accompagna e sostiene ‘vecchi e malati’.
Quel che toglie anni di vita a loro – senza minacciare nello stesso modo i ‘giovani e forti’ – è comunque un male ed entriamo nello scenario della ‘medicina delle catastrofi’ se ‘non c’è posto per tutti’. C’è questa consapevolezza nell’impegno fino all’eroismo dei nostri medici e dei nostri infermieri.
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