La presidenza Trump non è il primo ma è comunque un grosso ostacolo alla globalizzazione. Per capirne l’entità, conviene fare un passo indietro e acquisire prospettiva.
La globalizzazione nasce nella mente dei governanti americani alla fine degli anni ’60. Nixon si rende conto che gli USA non ce la fanno più a sostenere l’onere del Gold Exchange Standard, che dissangua le riserve auree di Fort Knox, e a sopportare l’agguerrita concorrenza dei prodotti europei. Decide di cambiare le regole del gioco: abbandona la convertibilità del dollaro in oro e sdogana la Cina.
La Cina diverrà il principale coprotagonista della globalizzazione, mentre l’Europa via via marginalizzata finge di unirsi. Dollari disancorati dall’oro inondano il mondo; ne son pieni i forzieri cinesi.
Mentre gli USA si trasformano da grandi creditori al più grande paese debitore della storia, la globalizzazione prorompe finanziata a credito dal resto del mondo. Genera enormi profitti per chi possiede il capitale. Invece, quando non calano, i salari crescono comunque poco. La disuguaglianza negli USA torna ai massimi di inizio ‘900. La classe media soffre e, per non comprimere i livelli di consumo, si indebita pesantemente con la compiacenza di un sistema finanziario che si inventa strumenti complessi.
Scoppia perciò la crisi del 2008. L’economia viene fatta ripartire con la droga monetaria (QE) e fiscale (vertiginosi deficit pubblici) ma si accentua ancora la sofferenza della classe media americana. Cresce la sua rabbia. La miscela è pronta.
Un tycoon proprietario di grandi attività in industrie in declino (immobiliare e media tradizionali), noto per le bravate da macho e non come capitano d’industria, si erge a paladino contro il male, che ovviamente sta al di là dei confini nazionali. Sequestra il partito repubblicano. Propone ricette semplici, poco conta se siano praticabili. Ammalia i rabbiosi. Vince la Casa Bianca.
È verosimile che Trump dei muri che ha proposto ne costruirà pochi, che ammansisca toni e obiettivi (anche se ciò non traspare dai primi atti). Ma già il fatto di aver sdoganato la diffidenza planetaria, in un modo o nell’altro, scatenerà pulsioni tra gli USA e l’estero. La Brexit sarà stato solo un assaggio.
Quella globalizzazione avviata da Nixon è oggi più che mai in pericolo. E, mentre l’Europa si disunisce, il riarmo della Cina lascia presagire scenari foschi per quando chiederà agli americani di ripagare con dollari non svalutati.
In effetti, i primi atti di Trump hanno già scalfito le componenti essenziali della globalizzazione, la quale consiste nell’accelerare import ed export di beni e servizi ed estendere l’internazionalizzazione ai movimenti dei fattori produttivi: capitale e lavoro. Il capitale varca i confini come investimenti di portafoglio (acquisto e vendita di attività finanziarie) ma anche di investimenti diretti all’estero (avvio di nuove aziende o acquisto di aziende esistenti da parte delle imprese multinazionali). Il lavoro si muove con le ondate migratorie.
Minacciando ritorsioni alle multinazionali americane che investono all’estero, Trump frena la mobilità del capitale. Vietando l’ingresso di cittadini stranieri negli USA ostacola la mobilità del lavoro. Gli annunciati dazi sulle importazioni, a partire dal Messico che si rifiuta di pagare la costruzione del muro al confine con gli USA, limiterebbero anche i flussi di merci.
Vi sono precedenti storici. Tra metà Ottocento e il 1914 il mondo visse un’altra fase di globalizzazione facilitata dalle grandi innovazioni del tempo (es. navi a vapore, ferrovie e telegrafo): crebbero gli scambi internazionali di merci, i flussi di capitale transfrontalieri e le migrazioni. La fine di quella globalizzazione fu sancita dal congiungersi di tre fattori principali: 1) lo scoppio delle due guerre, mondiali sì ma scaturite come conflitti tra le potenze europee di allora; 2) il tramonto dell’impero britannico, che era stato il gendarme di quella fase di globalizzazione; 3) la Grande Crisi del ’29, trasformata in depressione dalle errate politiche macroeconomiche di restrizione monetaria e austerità fiscale (Keynes doveva ancora arrivare) aggravate dal diffuso protezionismo commerciale nonché dall’introduzione di limiti ai flussi internazionali di capitale e alle migrazioni.
È ovvio che i limiti unilaterali di Trump – a import di merci, export di capitale e afflussi migratori – scateneranno, ora come allora, ritorsioni da parte degli altri paesi. Ne scaturiranno conflitti, si spera solo commerciali, un veleno per la globalizzazione.
Limitiamoci solo a osservare che non è elegante che siano proprio gli USA – i quali fino a ieri forzavano col loro Washington Consensus la liberalizzazione degli scambi esteri in tutti i paesi – a dettare un’inversione a 180° delle regole che essi avevano scritto, mentre sono diventati il principale paese debitore. Urge molta saggezza da parte dei paesi creditori.
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