Con colpevole ritardo, ho letto solo ora un brillante articolo di due sociologi, Marianna Filandri e Giovanni Semi, pubblicato sulla rivista «il Mulino» un anno fa (Viva le classi sociali!, 19 novembre 2018). È un piccolo vademecum per quei politici e opinionisti che spesso parlano a sproposito, non solo nei talk show televisivi ma anche nelle aule parlamentari, del ceto medio e del suo impoverimento.
Prima di darne conto, facciamo un passo indietro. Verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, la questione del ceto medio diventò centrale nel dibattito pubblico dopo la pubblicazione del celebre Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini (1974). Il grande economista, mettendo in discussione un mantra della vulgata marxista, mostrava il peso crescente dei ceti medi nella società italiana, soprattutto della piccola borghesia del settore agricolo, dell’artigianato e del commercio (i famigerati ‘topi nel formaggio’). Una tesi molto vicina a quanto sosteneva Alessandro Pizzorno in un altro noto saggio, I ceti medi nei meccanismi del consenso, anch’esso edito nel 1974. Entrambi gli autori, pur riconoscendo l’importanza di questi gruppi sociali, attribuivano la loro espansione soprattutto alle politiche clientelari messe in campo dalla Dc.
Oggi, la questione si ripropone in termini diversi. I mass media, come spesso accade, hanno amplificato – talvolta esasperandone i toni oltre misura – il declino del ceto medio, al centro di una crisi economica che ha colpito il suo status come i suoi livelli di reddito e di occupazione. Perché, ha osservato uno dei più eminenti studiosi del fenomeno, Arnaldo Bagnasco, la sua presunta «proletarizzazione» non si presta a facili semplificazioni giornalistiche (La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale, il Mulino, 2016).
L’attenzione, infatti, andrebbe rivolta più sull’allargamento della forbice tra il suo strato superiore e quello inferiore (tendenza analizzata per primo da Charles Wright Mills nella sua monumentale ricerca sui colletti bianchi del 1951), ovvero sulle inedite e sempre più evidenti disuguaglianze sociali create da questa divaricazione.
A dire il vero, nel linguaggio corrente è diffuso anche il lemma ‘classe media’, che, come sottolineava lo stesso Wright Mills, è un’insalata mista di occupazioni, una nebulosa che comprende lavoratori indipendenti (come artigiani, piccoli e medi imprenditori) e dipendenti (come gli impiegati pubblici e privati).
In realtà, una classe media non è mai esistita, ma esistono più classi medie professionali, che cambiano nel tempo e nello spazio. Quando ci si vuol riferire a un insieme che supera e comprende tali diversità, entra allora in gioco il termine ceto, che indica una vicinanza di tratti culturali, stili di vita, modelli di consumo, effetto anche di scelte politiche.
Le aspirazioni tipiche del ceto medio italiano, che hanno cominciato a prendere forma nel secondo dopoguerra e sono state condivise anche da settori operai, andavano dalla proprietà della casa al possesso di un’automobile, dall’andare in vacanza al mandare i figli a scuola. Queste aspirazioni potevano realizzarsi in maniere molto diverse in base alla classe sociale di appartenenza, ma rimanevano simili nel contenuto. Alcune famiglie potevano comprarsi una berlina di lusso, mentre altre solo un’utilitaria; alcune andavano in vacanza in lontane località esotiche, altre in campeggio a qualche chilometro da casa.
Il punto centrale segnalato da Filandri e Semi è che non solo le aspirazioni di ceto medio continuano a essere ampiamente diffuse, ma che le classi sociali sono vive e vegete, e che ciascuno di noi, fin alla nascita, eredita una somma di vincoli o di opportunità che gli consentiranno una qualità della vita peggiore o migliore.
Guardando ai dati sulla mobilità intergenerazionale, lo scenario resta sconfortante. La classe sociale dei figli è infatti fortemente dipendente da quella dei genitori. In altre parole, nascere in una famiglia borghese significa avere la certezza di restare borghesi, mentre nascere in una famiglia operaia favorisce la permanenza negli strati sociali più bassi.
Morale: il nostro paese ha un disperato bisogno di riforme che ne sblocchino l’immobilismo sociale e la stagnazione economica. Ma, promesse da tutti e quasi mai realizzate da nessuno, restano una sorta di miraggio. Ma che cos’è che in Italia impedisce di fare le riforme? La risposta non è difficile.
Qualunque sia il provvedimento immaginato per colpire privilegi e corporativismi, scatta immediatamente la reazione delle categorie avvinghiate a condizioni di favore: monopoli, condoni, carriere assicurate, pensioni speciali, proroghe ed esenzioni, ordini professionali e sinecure di casta. Formano un esercito folto e agguerrito, e spesso riescono ad averla vinta aizzando un particolarismo spietato e saccheggiando le casse pubbliche. È contro questa muraglia che si infrange qualsiasi vento riformatore. Lo schieramento antimeritocratico e anticoncorrenziale è riuscito così a neutralizzare la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza.
I fatti ci invitano a non cadere nel trabocchetto che colloca l’impoverimento relativo del ceto medio in scenari da Terzo mondo. Ma ci invitano anche a non snobbare i rischi di nuove drammatiche fratture nella comunità nazionale. Sempre i fatti, ad esempio, ci dicono che il lavoro servile svolto dalle donne immigrate ha permesso alle donne italiane di emanciparsi (almeno parzialmente), senza però mutare l’assetto tradizionale della famiglia e del welfare. E ci dicono che i mestieri manuali meno qualificati si stanno velocemente etnicizzando, soprattutto al Nord. Si delinea così una situazione in cui i gradini inferiori della scala sociale sono segregati su base etnica. Non è un problema trascurabile per le stesse prospettive del nostro sistema democratico.
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