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Un appunto a Piero Sansonetti su fascismo e comunismo

16 Novembre 2017 di Dino Cofrancesco 2 commenti

Piero Sansonetti, un giornalista che ha acquisito non poche benemerenze per il suo impegno etico-politico in difesa delle ‘garanzie della libertà’ – minacciate dalle procure montagnarde –, a conclusione del suo articolo, No, la rivoluzione d’ottobre aveva un’idea il fascismo no («Il Dubbio», 7 novembre 2017), scrive di non aver mai «creduto che si possano mettere sullo stesso piano la rivoluzione d’ottobre e il fascismo, o il nazismo. Non perché ci siano grandi differenze nella furia totalitaria e nella ferocia dei massacri. Ma perché mi pare che sia sbagliato mettere sullo stesso piano un movimento puramente reazionario e violento, privo di una strategia, di una visione – di una utopia – come fu il nazismo, con un gigantesco fenomeno rivoluzionario, fallito, ma ricco di esperienze, d’idee, di possibilità».

Accomunare fascismo e nazismo suscita non poche perplessità – specie se si considera il titolo dell’editoriale e il fatto che quando poi si parla di «un movimento puramente reazionario e violento» si nomina prudentemente il solo nazismo – ma ammettiamo pure che fascismo e nazismo siano due facce della stessa medaglia e che si tratti, quindi, di fenomeni intercambiabili giusta un uso linguistico entrato ormai nel discorso comune – e che non c’è nessun Renzo De Felice che valga, quanto meno, a problematizzare. Ammettiamo pure che le dottrine del Duce e del Führer si ispirassero agli stessi valori, ma siamo sicuri, poi, che i movimenti e i regimi totalitari di destra non avessero una loro «strategia», una loro «visione», una loro «utopia»?

In realtà, ce l’avevano eccome! ma le loro (diverse) Weltanschauungen non nascevano dalla Gesellschaft, ovvero dalla ‘societas’ che, dal cristianesimo all’illuminismo, conosce solo individui (o persone) dotati di dignità intrinseca e, pertanto, titolari di diritti inalienabili (libertà civili e politiche) bensì dalla Gemeinschaft ovvero dalla ‘communitas’ che conosce famiglie, tribù, nazioni che danno identità etico-sociale ai loro membri e chiedono ad essi, in caso di minaccia, di mettere a disposizione diritti, libertà e vita in nome del  principio chi per la patria muor, vissuto è assai.

Se questo è vero, è lecito contrapporre alla berlingueriana ‘spinta propulsiva’ della rivoluzione d’ottobre il nichilismo terroristico delle rivoluzioni fascista e nazista? Chi combatte pro aris et focis ovvero per la terra dei padri – con le sue tradizioni, i suoi ricordi, i suoi simboli, i suoi monumenti – temendone (a torto o a ragione) l’annichilimento ontologico, dopo la guerra più devastatrice della storia del genere umano – quella Grande Guerra che vide e udì le ‘tempeste d’acciaio’ –, non aveva, nella mente e nel cuore, valori alti che non erano quelli di Sansonetti (né i miei) ma che, nondimeno, si sostanziavano di ‘norme e sacrifici’, per citare il binomio nel quale Emile Durkheim sintetizzava l’agire morale?

Sennonché c’è una logica in quanto scrive Sansonetti e tale logica va ricondotta al pregiudizio, potremmo dire platonico-cristiano-illuministico, che da secoli condiziona il pensiero occidentale e che fa rientrare nel campo etico solo ciò che è universalizzabile ovvero vien fatto o progettato per recare un beneficio all’intero genere umano. La rivoluzione sovietica recava alle genti un messaggio di pace e di riscatto e intendeva modificare «il rapporto tra economia e giustizia sociale in tutto il mondo, e soprattutto nel mondo occidentale» (Sansonetti). Per questo il suo esito tragicamente fallimentare non getta nessun’ombra su un’impresa che trovò in Antonio Gramsci il teorico più coerente e implacabile; e poco importa, come scrive Corrado Ocone, che l’esperienza sovietica ci abbia «mostrato nella “prassi”’ ciò che è vero in “teoria”: cioè che ogni “costruttivismo” politico o “economia di piano”», ce lo ha insegnato la Scuola austriaca,« è tanto impossibile quanto irrazionale».

Hanno rilevato in tanti – e in primis uno dei più grandi storici del Novecento, François Furet – che il comunismo si giudica per ciò che intendeva fare (e non è riuscito a fare) e il fascismo per ciò che ha fatto (e che si riteneva iscritto nel suo dna).

La spiegazione sta appunto nella pregiudiziale illuminista: il comunismo s’identificava con valori universali – anche se le sue buone intenzioni avevano lastricato la via dell’inferno; il fascismo, al contrario, era al servizio diretto e consapevole dell’Anticristo che non lo salvò dalla sconfitta militare e dalla damnatio memoriae. Ragionare in questi termini, dispiace doverlo ricordare all’ottimo Sansonetti, non è solo un ‘errore della mente’, non è solo sbagliato sotto il profilo etico, filosofico e culturale: è qualcosa di più, è tener sempre accesa la fiamma della ‘guerra civile europea’, relegando nel passato gli orrori dell’apprendista stregone (il comunismo si considera estinto nel secondo ’89) e fingendo che qualcuno morto più di settant’anni fa sia sempre vivo e vegeto – giacché il Male radicale è sempre tra noi.

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Commenti

  1. MARTINELLI ANTONIO dice

    18 Novembre 2017 alle 15:01

    Concordo con Dino Di Francesco.Secondo me,’pero’, manca un invitato. Il capitalismo universalista ,altrettanto privo di valori etici e morali che, per calcolo,affinita’ e “razza” corse in aiuto del socialismo mondialista (comunismo) contro il socialismo nazione (nazismo e almeno in parte fascismo).Questi dovettero affrontarli entrambi e fu lo loro fine….

    Rispondi
  2. Marta Regalia dice

    17 Novembre 2017 alle 11:10

    Ancora una volta ottimo, Professore. Spero di incontrarla presto di persona. Marta

    Rispondi

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